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464 arturo g. sambon


Fu quasi comune opinione, che d’allora sino all’anno 1278, in cui Carlo I riaprivala, rimanesse chiusa la zecca napoletana. Cosicché ultima nella serie delle monete autonome sarebbe stata quella del truce vescovo Attanasio II. Ma è per lo meno inconcepibile il fatto, che non uno degli undici Duchi, i quali dopo lui si successero, ne imitasse l’esempio; e il non essersi fin’ora rinvenuta alcuna moneta col nome loro, non è ragione sufficiente per affermarlo1.

Il Fusco asserì d’aver vista una moneta sulla quale era un santo in abito vescovile colle braccia levate in alto, e al rovescio un cavallo frenato. E da quest’immagine del cavallo, che rammentavagli una popolare tradizione, argomentò che la moneta fosse stata battuta in oltraggio ai Napoletani, allorché Pandolfo IV, Principe di Capua, riusci a signoreggiare per breve tempo la loro città, scacciandone

    al centro una croce contornata da quattro punti, e al rovescio la stessa leggenda, intorno al monogramma s imp. La seconda, benchè anonima, per la simiglianza che ha con la precedente, deve assegnarsi agli stessi imperatori. Ed entrambe per la forma delle lettore, e il nome dell’Arcangelo Michele, fanno supporre che siano state battute in una zecca Longobarda dell’Italia meridionale. Ma il nome di Basilio unito a quelli di Leone e di Alessandro, esclude la possibilità di attribuirle alla zecca di Benevento, perchè, quando nell'891 i Greci s’insignorirono di quella città, Basilio era morto. Una possibile congettura potrebbe essere la seguente. Nell'881 Gaiderisio Principe di Benevento, scacciato, fuggì presso i Greci, e Basilio rimandollo in Puglia assegnandogli la città di Oria. Può darsi ch’egli abbia prestato omaggio al greco imperatore, il quale intento a restaurare il suo dominio in Italia, segnando il nome del santo patrono dei Longobardi sulle monete, volle affermare la pretesa sovranità sulle loro terre.

  1. Non posso tener conto della testimonianza riferita da Engel, (Recherches sur la Numismatique et la Sigillographie des Normands, ecc.) nella quale in una donazione testamentaria dell’anno 928: si logge: post meum transitum ibidem habeat predicta nostra ecclesia pro luminariis, absque iniuria, auri tremissem unum Neapolitanum. La tremissa, ricordata ivi e in parecchie altre carte, non era una moneta d’oro battuta a Napoli come sembra sospettare il Fusco, ma quel nome s’adoprò con significato generale a determinare le monete d’oro che nella città avevano corso. La formola di eseguire i pagamenti in moneta que tunc andaverit in ista civitate, si trova spesso adoperata in altre carte napoletane del tempo. V. Camera, Importante scoperta del fam. tareno Amalfit. pag. 29 e 3O.