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do in cui si dichiara che la vittoria consoliderà provvisoriamente il regime, riducendo i contraccolpi economici; e il periodo in cui si dice che il vecchio antifascismo è morto. Incollati i brani su un pezzo di carta, scrive lui stesso, con la ben nota perizia, i titoli. In alto: «Ironie della storia». Sotto, più in grande: la «Resa a discrezione» politica dell’antifascismo italiano all’estero. Poi ancora: «Il vecchio antifascismo è morto!»
Poche righe di presentazione precedono le citazioni: «Giustizia e Libertà, organo dei fuorusciti italiani, nel suo numero odierno pubblica un articolo editoriale che contiene i seguenti significativi passaggi».
La nota, telefonata la stessa sera del 15 a Milano, appare su due colonne inquadrate sul «Popolo d’Italia» del 16 mattina. Il duce si frega le mani. Il colpetto giornalistico è fatto. Il 9, fondazione dell’impero. Il 16, liquidazione dell’antifascismo. Gli antifascisti ridotti a vivere di iniezioni di canfora, svengono.
Senonché il 16 sera arriva sul tavolo del duce un esemplare di G. L.
Ma dove è la resa a discrezione? I giellisti attaccano l’impero, mi sbattono in faccia non uno ma cinque articoli d’attacco. Altro che resa, imbecille di un corrispondente parigino.
Ordine è dato ai giornali di astenersi dal riprodurre la nota del «Popolo d’Italia». Difatti il silenzio, dopo la stamburata del 16, è, ad eccezione della «Stampa», generale. L’antifascismo morto il 16, è più vivo
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