Pagina:Rosselli - Scritti politici e autobiografici, 1944.djvu/142

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È l’offerta di Tarrasa ai partenti. Le donne sono le più entusiaste.

Durante dieci minuti è un colloquio frenetico tra treno e stazione, tra volontari e popolo. La città di Tarrasa è tutta in stazione a salutare i volontari italiani. Tutta. Il grosso borgo industriale non dorme più da quindici giorni. Ogni notte va a salutare i treni, va a festeggiare i volontari.

Tarrasa, Tarrasa! Il coro si spezza. Le conversazioni si fanno più particolari. Il compagno ha trovato una compagna.

Ora il treno sta per partire.

Un oratore del comitato ci saluta. Rispondi, mi gridano i compagni. Grido il nostro grazie e il nostro augurio, in un italiano spagnolizzato.

Il treno si muove, la folla è presa da un fremito, i miei compagni cantano a squarciagola per coprire la commozione, io pure ho le lacrime, eccola dunque la rivoluzione nel suo momento di fraternità immensa, oh Spagna, come vale la pena di battersi per te, oh come si può essere disposti, dopo Tarrasa, per Tarrasa, per tutte le infinite Tarrase grige, monotone, salariate, oppresse d’Europa, a dare la vita.

L’angoscia segreta della partenza è sparita sul viso di tutti. Nella notte il treno ospita un’esplosione di vita. Ci battiamo le spalle, gridiamo, ci guardiamo negli occhi umidi fin nel profondo, e tra una fetta di cocomero e un panino imbottito confessiamo senza ritegno la fede.

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