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240 la tempesta

per tale riguardar non si volesse il parto che Sicora depose in questi luoghi, quel mostro color di rame, degno rampollo di lei.

Ar. Sì, Caliban suo figlio.

Prosp. Quel Caliban che ora tengo a’ miei servigi, stupida creatura, in cui non vedi che fango. Tu dunque sai fra quali tormenti io ti trovassi; sai le grida dolorose che innalzavi, al suono di cui ululavano i feroci lupi, e fremevano nelle commosse viscere gli orsi selvaggi. Era supplizio da dannato, nè Sicora poteva più romper l’incanto. Arrivato in questi luoghi, intesi le tue strida; e valendomi della mia arte, costrinsi il pino ad aprirsi, e a lasciarti fuggire.

Ar. Te ne siano rese grazie, mio signore.

Prosp. Or se ti lagni un’altra volta, fenderò una quercia; e confittoti fra i suoi nodi, permetterò che vi gemi la vita per altri dodici inverni.

Ar. Perdono, signore; sarò umile a’ tuoi cenni; ti obbedirò silfo di buona volontà.

Prosp. Attienti al detto, e fra due giorni sarai libero.

Ar. Ne sia il patto fra di noi. Ora che deggio fare? parla; che deggio fare?

Prosp. Trasformati in ninfa marina, invisibile per tutti, fuorchè per me. Vola a prender questa forma, e poi ritorna. Va; non indugiare. (Ariele esce) — Tu, mia cara figlia, svegliati; dormisti abbastanza, e propizio fu il sonno che scese su di te.

Mir. L’impressione del vostro racconto m’immerse in quel sopore.

Prosp. Scuotiti, alzati; vien meco; andianne dal nostro schiavo Caliban, che non mai ci fu largo di risposte cortesi.

Mir. È un malvagio colui, e m’è ingrato di mirarlo.

Prosp. Ma, sebbene malvagio, esso ci è utile. È esso che accende il fuoco, che accatasta le legne, che ci rende mille altri servigi necessari. Olà! schiavo Caliban, informe loto, favella.

Cal. (dal di dentro) È qui bastante legna.

Prosp. Esci, ti dico; altre bisogne t’aspettano. Vieni, testuggine. Oh! non verrai tu? (rientra Ariele in forma di ninfa dell’acqua) Vaga apparizione! Mio leggiadro Ariele, odi all’orecchio.

(gli parla sommesso)

Ar. Signore, sarà fatto.               (esce)

Prosp. Ebbene, immondo schiavo, frutto esecrabile dei laidi amori d’un demonio colla tua madre infernale, non vorrai farti avanti?      (entra Caliban)

Cal. Cada su di voi la guazza più contagiosa che mai mia ma-