Pagina:Rusconi - Teatro completo di Shakspeare, 1858, I-II.djvu/262

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atto secondo 251

con quell’ardore con cui il lattante s’attacca al seno che gli è liberale di nutrimento, e muoverà per ogni intrapresa che gli accenneremo di compiere.

Seb. La tua condotta, amico, mi sarà d’esempio. Come tu ottenesti il trono milanese, io otterrò il napolitano. Snuda la spada, e ferisci: un colpo solo ti redima dal tributo che paghi; e fa di me un re a cui tu sarai sempre accetto.

Ant. Sia; e quando alzerò il braccio, alza a tua posta il tuo per trafigger Gonzalo.

Seb. Una parola ancora. (favellano sommesso; musica; rientra Ariele invisibile)

Ar. Il mio signore coll’arte sua vede il pericolo a cui questi amici suoi vanno incontro. Ei m’invia per salvarli, o vano riuscirebbe ogni suo divisamento.

(canta all’orecchio di Gonzalo)

«Mentre dormite assorto in placida quiete, la cospirazione dall’occhio arguto sceglie il suo momento. Oh! se vi cale di questo lume di cielo, scuotete il sonno, e vegliate su di voi. Sorgete, sorgete; dolcissimo è il giorno».

Ant. Uccidiamoli tosto.

Gonz. Pietosi angeli del cielo, salvate il re!

(tutti si svegliano)

Al. Che avvenne? a che quelle spade? perchè quegli sguardi feroci?

Gonz. Che fu?

Seb. Mentre qui vegliavamo per difesa vostra, udimmo orrendi uggiti di tori o di lioni. Questo vi riscosse... questo ne colpì di spavento.

Al. Io non intesi nulla.

Ant. Oh! fu fragor tale da atterrire una fiera, da far tremare la terra: certo era un gruppo di lioni che per fame ruggivano.

Al. Gl’intendeste, Gonzalo?

Gonz. No, Sire; ma udii un concento che mi risvegliò. Mandai lui grido spalancando gli occhi, e vidi costoro coi ferri branditi. Un romor s’intese, è pur vero; ma fu romore che ne avvertiva di star cauti, o meglio ancora di abbandonar questi luoghi sguainando le daghe.

Al. Allontaniamoci adunque, e continuiam le indagini pel mio infelice figlio.

Gonz. Lo salvi il cielo dalla ferocia di queste fiere dell’isola; chè qui certo egli respira.

Al. Ite; vi seguo.