Pagina:Rusconi - Teatro completo di Shakspeare, 1858, I-II.djvu/380

Da Wikisource.

NOTA


«.... Se il dramma di Giulietta e Romeo sembra rischiarato dai raggi dell’aurora, ma di un’aurora le cui nubi infiammate annunziano un giorno tempestoso, l’Otello è coperto di fosche ombre; è un quadro alla Rembrandt. Ma qual felice errore è mal quello che fece prendere a Shakspeare il Moro dell’Africa settentrionale, il Saracino battezzato, di cui si parla nella Novella originale, per un vero Etiope? Si conosce in Otello la natura selvaggia di quell’ardente zona, che produce gli animali più feroci e le piante più venefiche. Il desiderio della gloria, le leggi straniere dell’onore, costumi più dolci e più nobili, non l’hanno mansuefatto che in apparenza. La gelosia non è in lui quella delicata irritabilità del cuore, che si unisce ad un santo rispetto per l’oggetto amato; è la sensuale frenesia che introdusse nei climi cocenti l’indegna costumanza di racchiudere le donne, e tanti altri abusi contro natura. Una stilla di questo veleno, versata nel suo sangue, vi eccita la più spaventevole effervescenza. Otello si mostra nobile, sincero, fiducioso, riconoscente all’amore che inspira; è un eroe che sprezza il pericolo, il degno duce de’ suoi militi, il fermo sostegno dello Stato: ma il potere, puramente fisico, delle sue passioni abbatte con un colpo le sue virtù adottive; e il selvaggio trionfa in esso dell’uomo civile. Quella medesima tirannia del sangue sopra la volontà si manifesta nella espressione del suo sfrenato desiderio di vendicarsi di Cassio; ed allorchè, riavuto dal suo accanimento, i rimorsi, la tenerezza, il sentimento dell’onore offeso si destano a un tratto nel suo seno, egli si volge contro di sè con tutto il furore d’un despota che punisce il suo schiavo ribelle: soffre doppiamente; soffre nelle due sfere in cui si divide la sua esistenza.

Se l’inclito Moro porta soltanto sopra il suo volto le fosche tinte del sospetto e della malvagità, Jago è nero fin nel fondo dell’anima. Egli si mette ai fianchi d’Otello qual genio malefico, le cui perfide insinuazioni non gli lasciano alcun riposo: e si direbbe che relazioni naturali rendano la sua influenza più possente che quella del buon angelo d’Otello, Desdemona. Non mai fu posto sulla scena uno scellerato più astuto di Jago, che tende le sue insidie con tal’arte, che diventano inevitabili. Non si comporterebbe l’indegnazione che inspira il suo fine, se l’attenzione non si rivolgesse tutta intera verso i suoi mezzi che dànno alla mente un’occupazione continua. Maestro dell’arte della dissimulazione, colui non pare freddo, malcontento, feroce, se non quando ardisce permettersi d’apparir tale; ma è poi umile e strisciante tosto che stima necessario d’usar questa maschera: inaccessibile alle commozioni disinteressate, sa suscitare a suo grado le passioni degli altri, e farne suo profitto. È eziandio eccellente osservatore degli uomini, quant’esser può chi non ha imparato