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atto quarto 345


SCENA XII.

Un’altra stanza.

Entrano Antonio ed Ero.

Ant. Ero, tu anche mi vedi?

Ero. Sì, nobile signore.

Ant. Qualche volta noi miriamo una nube che simula le forme di un drago minaccioso; vediam vapori che ci presentano la figura di un orso, o di un leone; altri che s’elevano a mo’ di fortezza e segnano orrendi precipizi; monti a doppia cima franati, turchini promontorii cinti di foreste, che sembrano ondeggiare sui nostri capi, immagini vane che deludono i nostri occhi. Tu hai veduto tali fenomeni, creati dalle nere ombre della sera?

Ero. Sì, mio signore.

Ant. Quello che un momento credi un cavallo svanisce e si fonde indistinto come l’acqua nell’acqua.

Ero. Così fa, signore.

Ant. Mio buon famiglio, ora il tuo duce altro più non è che una di quelle immaginarie forme. Tu credi mirare ancora Antonio, ma io non posso conservar più a lungo questo corpo visibile. È per l’Egitto che impresi questa guerra, e la regina, di cui credeva possedere il cuore, com’essa aveva il mio, il mio che, finchè è stato libero, possedeva un milione d’altri cuori che prendevano norma a’ lor battiti dal suo, si accordò con Cesare, e con un tradimento vendè la mia gloria a profitto del mio nemico. — Non piangere, no, gentile scudiero, ci riman modo di terminare i nostri mali da noi. — Oh vil donna! (entra Mardiano) essa mi rubò la spada.

Mar. No, Antonio, la mia signora ti amava, e accoppiò le sue fortune interamente colle tue.

Ant. Lungi da me, eunuco temerario; taci; ella mi ha tradito, e deve morire.

Mar. La morte è un debito che ogni essere vivo non paga che una volta, ed ella lo ha già scontato. Quel che far volevi, è fatto. Essa ha prevenuto il tuo braccio, e le ultime parole che pronunziò furono, Antonio! generoso Antonio! quindi un tremendo singulto le interruppe il nome tuo, che anche una volta le voleva escire e che lasciò a metà fra le sue labbra e il suo cuore. Così spirò vagheggiando la tua immagine!

Ant. È ella morta?