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186 tito andronico

rivolgere sopra di sè? Come profferisci tu il nome di mano? È un esortare Enea a raccontar due volte l’incendio di Troia e la storia delle sue sventure. Oh! astienti dal nulla dire che ne richiami quel che più non abbiamo. Che parlo io? insensato ch’io sono! Come se obbliare mai potessimo che non abbiamo più mani, quand’anche Marco non ne profferisse il nome. — Ma cominciamo, cara figlia, e mangia di questa vivanda. — Qui però non vi è da bere; attendi tu, Marco, a quello ch’essa dice: sebbene io ancora potrei interpretare i suoi cenni dolorosi. Essa dice che non saprebbe inghiottire altro liquido che i suoi pianti. Muta sfortunata, diverrò esperto nel leggere il tuo pensiero, e familiare mi farò con esso, come lo sono gli eremiti colle loro preghiere. Tu non esalerai più sospiro, non innalzerai più braccio verso il cielo, non muoverai più occhio, non farai più cenno, che io non ne abbia un alfabeto, e non giunga con assidua cura a penetrare tutte le tue intenzioni.

Il fanciullo. Mio buon avolo, lascia queste amare lagnanze, e rallegra mia zia con qualche lieto racconto.

Mar. Oimè! questo tenero fanciullo, commosso da nostri dolori, piange vedendo le sventure del suo avolo.

Tit. Calmati, tenero rampollo; tu sei composto di lagrime, e la tua vita si scioglierà in breve con esse. (Marco batte un piatto con un coltello) Chi volesti colpire col tuo coltello, Marco?

Mar. Quello che uccisi, signore, un moscerino.

Tit. Via di qui, omicida! tu mi trafiggi il cuore; i miei occhi sono stanchi di tirannia. Un atto di morte esercitato sopra un essere innocente non si addice al fratello di Tito. Esci di qui: m’avveggo che non sei degno della mia compagnia.

Mar. Oimè! signore, non fu che una mosca che uccisi.

Tit. E se essa aveva un padre e una madre, di quali dolori non sarai tu stato loro cagione! Povero e innocente insetto venuto qui per alleviare i nostri mali col suo ronzìo melodioso! tu l’hai ucciso.

Mar. Perdonate, signore, era un insetto nero e deforme come il Moro dell’imperatrice, e perciò l’uccisi.

Tit. Oh, oh, oh! allora scusa me d’averti biasimato, perchè facesti opera pietosa. Dammi il tuo coltello perch’io ne oltraggi il cadavere, illudendomi come se in lui vedessi il Moro, che fosse venuto direttamente per avvelenarmi. Questo è per te, e questo è per Tamora, scellerato! (ferendo) Nè credo che sì al verde siamo ridotti da non poter uccidere fra di noi un moscerino, che viene ad offrirci l’effigie di quel nero e odioso Moro.