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294 | timone di atene |
ATTO SECONDO
SCENA I.
La stessa. — Una stanza nella casa di un senatore.
Entra un senatore con un papiro in mano.
Sen. E da ultimo cinquemila a Varrone; a Isidoro novemila; con quello che mi deve fa venticinquemila. — Nè mai gli cesserà quella manìa dello spendere? Così non può durare; nè durerà. — Se mi occorre danaro non ho che da rubare il cane dell’ultimo mendico, e mandarlo a Timone, e il cane conierà oro per me. — Se voglio vendere il mio cavallo e col prezzo acquistarne dieci altri migliori, lo darò a Timone senza chiedergliene nulla; un’alfana mi produrrà i corridori più superbi che qui si trovino. — Portieri non v’hanno da lui; ma soltanto un uomo che sorride a tutti e invita tutti quelli che passano. Così non durerà; convien necessariamente ch’ei precipiti. — Cafi, olà! Cafi, dico. (entra Cafi)
Caf. Eccomi, signore; qual è il vostro piacere?
Sen. Mettetevi il vostro mantello e correte da Timone: pregatelo, fino anche all’importunità, onde vi dia danaro, nè un lieve rifiuto vi chiuda la bocca, nè pago mostratevi di un: salutate il vostro signore, mentre il berretto scorre da una mano all’altra. Ditegli che le mie cose non mi consentono di dargli tregua, e che sono costretto a servirmi di quello che mi è proprio. Tutti i giorni di dilazione e di grazia sono passati; ei m’ha sempre rimesso all’indimani, e per troppa confidenza nelle sue parole sempre vane, ho perduto il credito. Amo ed onoro Timone; ma non debbo annegarmi per impedirgli di inumidirsi le piante: mi occorre subito la pecunia, e convien che l’abbia subito. Io non posso più acquetarmi alle vane promesse con cui mi delude. Partite; assumete l’aspetto d’un creditore de’ più fieri; mostrategli un volto che chiegga senza che parliate: imperocchè ben temo che Timone, che ora vola sublime come una fenice, non si mostri nudo come la gazza della favola, allorchè in breve ognuno l’avrà spogliato delle penne che gli appartengono. Andatevene.
Caf. Vado, signore.