Pagina:Rusconi - Teatro completo di Shakspeare, 1858, III-IV.djvu/330

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atto quarto 319


Tim. Io pur conosco te, e ciò mi basta, nè saper altro bramo. Segui il tuo tamburo; arrossa la terra col sangue dell’uomo, annaffiala, sommergila. I canoni religiosi, le leggi civili sono crudeli; che dunque esser dovrebbe la guerra? Questa impudica che ti segue, ha in se stessa più germi di distruzione che non la tua spada, ad onta del suo sguardo serafico.

Fr. Ti si corrompano le labbra!

Tim. Io non ti bacierò; dunque la corruzione ricada sulle tue.

Alcib. Come venne il nobile Timone in tanto mutamento?

Tim. Come fa la luna per mancanza di luce da diffondere: ma senza poter come essa rinnovare i miei chiarori, poichè non vi erano soli per prestarmene.

Alcib. Nobile Timone, qual servigio posso io renderti?

Tim. Nessuno, se non che avverare i miei sentimenti.

Alcib. Quali sono, Timone?

Tim. Promettimi servigi, ma non me ne rendere alcuno. Se tu non me li prometti, gli Dei ti puniscano, perocchè sei un uomo: se mantieni la tua promessa ti puniscano egualmente, perocchè un uomo sei.

Alcib. Intesi dir qualcosa delle tue sventure.

Tim. Tu vedesti i miei mali nelle ore della mia prosperità.

Alcib. È oggi che li veggo; allora era il tempo delle tue fortune.

Tim. Sì, come è oggi il tuo; ora che circondato sei da questa coppia di meretrici.

Timan. È dunque questi quell’Adone di Atene, di cui tutti gli echi ripeteano le lodi?

Tim. Sei tu, Timandra?

Timan. Sì.

Tim. Sii sempre una prostituta. Quelli che godono di te non ti amino. Insinua nelle loro vene, in ricompensa de’ loro lascivi ardori, un contagio che vi estingua i fuochi della lubricità; impiega con buon pro le dissolute tue ore: manda tutti i tuoi amanti al medico, e condanna i tuoi giovani adoratori, dalle guancie di rosa, alla dieta e al latte.

Timan. Appiccati, mostro.

Alcib. Perdonagli, cara Timandra; le sue gravi calamità gli hanno fatto smarrir la ragione. — Degno Timone, non mi rimane che poco oro, e tale penuria eccita tutti i giorni qualche rivolta fra i miei soldati indigenti. Ho saputo con dolore come l’ingrata Atene, obliando il tuo merito e i tuoi gran fatti di guerra, che la salvarono da certa distruzione...