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322 timone di atene


Alcib. Non facciam che inasprirlo. — Andiamo.

(batte il tamburo; escono Alcibiade, Frine e Timandra)

Tim. È egli possibile che la natura, addolorata e lassa delle ingratitudini dell’uomo, gli sia ancor tanto prodiga! Oh madre comune, tu il di cui seno immenso e fecondo partorisce e nutrica tutto; tu, che con la medesima sostanza con cui formi la tua più superba creatura, l’uomo orgoglioso, generi il nero rospo, il serpe azzurro, la dorata lucertola, l’aspide velenoso, e mille altri animali abborriti sotto la vòlta del cielo, in cui brillano i fuochi benefici del sole; apri a Timone, che detesta la razza umana, il tuo grembo liberale e fertile; concedigli una povera radice e chiudi poscia di nuovo il tuo seno. Non produr più nulla per l’uomo ingrato; non concepir più che tigri, lupi, draghi, orsi e altri mostri strani, se qualcuno ve n’ha che la superficie tua non abbia per anco mostrato alla pura faccia del firmamento che ti circonda. — Oh, una radice! — (scava e ne trova una) Ti ringrazio. — Chiudi le tue vene, inaridisci i tuoi ruscelli, dissecca i tuoi vigneti, cincischia le tue praterie, cancella i solchi delle tue campagne, e annulla tutte le piante da cui l’uomo ingrato estrae quei succhi e quei liquori, che, sotto l’adipe di un corpo fiorente, soffocano l’anima e offuscano il puro raggio della ragione, (entra Apemanto) Un altro uomo? Peste! peste!

Apem. Fui qui diretto: mi dissero che simuli i miei costumi, e vuoi imitarmi.

Tim. Sarà allora perchè non hai un cane da cui io possa prender norma. — La consunzione ti distrugga.

Apem. Tutto ciò non è in te naturale; pura ostentazione: non è che una tristezza indegna dell’uomo, e nata solo dal mutamento della tua fortuna. Perchè quella vanga? questo bosco? quelle vesti? e quegli sguardi in cui il dolore sta dipinto? I tuoi adulatori non perciò portano meno la seta, o bevono acqua, o dormono per terra, o ricordano che mai esistesse un Timone. Va, non disonorare quel mantello, facendo la parte ipocrita di censore degli uomini. Renditi adulatore a tua volta; cerca di rialzar la tua fortuna col mezzo che t’ha rovinato; impara a piegare il ginocchio e a cavarti il berretto dinanzi al ricco; studia i suoi maggiori vizi, e dichiarali virtù. È così che si adoprava con te; il tuo orecchio, aperto all’adulazione, era come esca che ti attirava intorno un gregge di scellerati e di parassiti; giusto è ora che divenga un tristo tu stesso. Se fossi ancor ricco, nol saresti che per vantaggio dei ribaldi; non cercare perciò di rassomigliarmi, contraffacendo la mia parte.