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172 DUE GENTILUOMINI DI VERONA


Duc. Lascia dunque ch’io lo vegga. Vuo’ prenderne uno della stessa lunghezza.

Val. Ogni mantello sarà al caso.

Duc. Ma come farò a portarlo; consentì che mi provi il tuo. (gli toglie il mantello) Oh! che lettera è cotesta? Che veggo? a Silvia! ed ecco la scala appunto che mi servirà pel mio disegno. Ben mi permetterete di leggere questa lettera. (legge) «I miei pensieri si librano tutta la notte sulla mia Silvia, e sono come tanti schiavi che le invio in imbasciata. Oh! se il loro signore potesse andare e venire con volo del pari leggero, come volentieri si porrebbe nei luoghi in cui essi stanno invisibili. I pensieri ch’io t’invio riposano sul tuo bel seno, intanto che io, che li deputo, maledico il favore che loro è concesso; invidio la sorte de’ miei schiavi; felice sorte di cui sono privo! e mi rimprovero perchè essi possono andar dove il loro signore vorrebbe egli pure andare». Che vuol dir ciò? «Silvia questa notte stessa io ti libererò». Oh nuovo Fetonte! osi tu aspirare a condurre il carro dei cieli, e colla tua folle temerità ad abbruciare il mondo? La tua mano vuol essa strappare gli astri, perchè ti prodighino la loro benefica luce? Vil seduttore, vilissimo fra gli schiavi! va a recare le tue carezze, il tuo sorriso alle donne tue pari; e credi che devi alla mia pazienza, ben più che al tuo merito, il favore di uscire da’ miei Stati. Ringraziami di questo benefizio, più che di tutti gli altri che troppo generoso sparsi su di te. Se però tu resti ne’ miei dominii più tempo che non se ne richiegga per la partenza più precipitosa, la mia collera, pel Cielo! soperchierà l’amore che avessi mai sentito per mia figlia o per te. Fuggi, perch’io non intenda le tue vane scuse, e se ami la vita, affrettati a lasciare questi luoghi. (esce)

Val. E perchè non morir, piuttosto che vivere fra i tormenti? Morire è un essere bandito da me stesso; e Silvia è me stesso; esiliarmi da lei, è esiliarmi da me; mortale esilio! Che mi cale della luce, se non veggo Silvia? Che delle ricchezze e della gloria, se non le divido con lei, se pensar non posso ch’ella vive all’ombra di queste care cose? Se non istarò la notte vicino a Silvia, non vi sarà per me melodia nel canto del rosignuolo; se il giorno non vedrò Silvia, il giorno non splenderà per me; ella è la essenza della mia vita, ed io cesso di esistere, se la dolce influenza della sua beltà non mi rianima, non mi riscalda, non mi alimenta. Non eviterò la morte, evitando la sua condanna. Qui restando, aspetterò il mio fine; partendo da questi luoghi, andrò ad incontrarla io stesso. (entrano Proteo e Launzio)