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ATTO QUARTO 259

ferirei divenire la lebbra di un mendico anzichè colui. — Oh! oh! onta e vergogna! (entrano Ettore, Troilo, Ajace, Agamennone, Ulisse, Nestore, Menelao e Diomede con torcie)

Ag. Andiamo male, andiamo male.

Aj. No, è laggiù, dove vedete quei lumi.

Et. Io vi infastidisco.

Aj. No, in verità.

Ul. Viene egli stesso per guidarne. (entra Achille)

Ach. Siate il ben giunto, prode Ettore; siate i benvenuti tutti voi, nobili principi.

Ag. Ora, bel principe di Troja, vi do la buona notte. Ajace comanda le guardie che vi debbono scortare.

Et. Grazie, e buona notte al generale dei Greci.

Men. Buona notte, signore.

Et. Buona notte, caro Menelao.

Ter. (a parte) Caro, dice egli? Caro scheletro, cara cloaca.

Ach. Buona notte, e buona accoglienza a quelli che rimangono.

Ag. Buona notte. (esce con Men.)

Ach. Vecchio Nestore, sta, e tu pure, Diomede, fate compagnia ad Ettore, per un’ora, o due.

Diom. Non posso, signore: ho importanti negozii, e non debbo trattenermi: buona notte, grande Ettore.

Et. Datemi la vostra mano.

Ul. Seguitelo (a parte a Troilo), egli va alla tenda di Calcante: io vi accompagnerò.

Troil. Grazie, signore.

Et. Addio dunque; buona notte. (Diom. esce; Ulisse e Troilo lo seguono)

Ach. Venite, venite; entriamo nella mia tenda. (esce con Et., Aj. e Nest.)

Ter. Quel Diomede è uno scellerato senza onore: io non mi fiderei di lui quando guarda di traverso, più che di un serpente allorchè fischia. A ciancio e promesse è splendido come un cattivo cane, che latra senz’essere sull’orme della preda; ma quando egli compie la sua promessa, gli astronomi l’annunziano come un fenomeno, come un prodigio che deve far nascere qualche gran rivoluzione: il sole ha luce dalla luna allorchè Diomede osserva la parola. Vuo’ piuttosto non veder Ettore, che non seguire colui: dicono amoreggi una fanciulla trojana, e che gli è stanza la tenda del traditor Calcante: vuo’ seguitarlo. Libidini, e solo libidini: libertini, e null’altro! (esce)