Pagina:Saibante - Le prose di Bianca Laura Saibante Vannetti.pdf/44

Da Wikisource.

38

impiccare uno condannato mi è convenuto, e perciò non temete; ma bensì, presa di me compassione, con voi lasciate, caro Sere, ch’io giaccia; giacché sotto altronde accattare non mi sono potuto, onde coricarmi». Il povero Arciprete a tali parole qual si rimanesse, e come inorridito, Dio vel dica; e, pieno di rabbia e dispetto, precipitando quasi di letto sen corse alla stanza dell’oste, al quale molto bene risciacquò il buccato; così Carletto, contentissimo dell’evento, serratogli sulle calcagna l’uscio, ritornossi a letto, e tutto il rimanente della notte in sonno profondo la si passò. Il vegnente giorno poi attese che il sole facesse capolino per entro le fessure dell’impannate, affine di vederci meglio i fatti suoi; e quando tempo gli ebbe paruto che l’Arciprete dovesse essersi partito, sen venne a Giannetto, che ancora teneva fantasia per le rampogne del Sere; del che Carletto, avvisato essendosi, sì gli disse: «Caro Messere, assai bene sommi potuto dormire, della qual cosa ne so io grado alla fortuna, ed a voi». Ma l’oste, quasi della beffa scordato, credendo aversi d’innanzi uno giustiziere, quantunque niente niente a sangue gli andasse la perdita della cena, e della grazia del Sere, tutta volta, benché cola muffa al naso, salutollo, e di ciò che per cagion sua sostenuto avea non gli volle dir cica; così per quella fiata Carletto ritornossi a casa, la moglie

colla