Pagina:Salgari - Duemila leghe sotto l'America - Vol. I.djvu/32

Da Wikisource.
30 capitolo iii.


— No, rispondeva invariabilmente Morgan.

Era scorso un minuto, lungo per quegli uomini quanto un secolo, quando la fune improvvisamente deviò. L’ingegnere, che s’era tirato indietro, ritornò rapidamente sull’orlo dell’abisso e guardò giù.

— Ferma! comandò con voce soffocata.

— Che succede? chiesero, fremendo, i cacciatori e le guide.

— Non vedo più la lampada e la corda non è più tesa, rispose sir John.

— È impossibile! esclamarono Burthon e O’Connor che si sentirono bagnare la fronte d’un gelido sudore.

— Zitto, disse l’ingegnere. Odo la voce di Morgan.

Si curvò nuovamente sull’abisso e tese gli orecchi rattenendo il respiro. Fra i sordi muggiti che salivano udì la voce di Morgan.

— Ferma! gridava l’intrepido cacciatore.

— Sei giunto al fondo? domandò sir John.

Sia che la sua voce non potesse giungere laggiù pel fragore delle acque o che, non ottenne risposta, però, a quaranta piedi di profondità scorse improvvisamente la lampada che pareva uscisse dalla parete e sentì la fune tendersi e ondeggiare.

— Lascia scorrere! s’udì gridare nell’abisso.

La fune continuò a svolgersi altri cento piedi, poi tornò a perdere la sua tensione. L’ingegnere guardando giù scorse un punto luminoso appena visibile.

— È giunto, diss’egli.

Aspettò cinque minuti poi ritirò la corda, all’estremità della quale vide appeso un foglietto di carta piegata in quattro e inzuppato d’acqua. L’aprì e lesse le seguenti parole scritte con una matita: «Sono giunto senza malanni. Potete scendere senza timore.»