Pagina:Salgari - Duemila leghe sotto l'America - Vol. I.djvu/9

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l'ingegnere webher 7


simi, intelligenti, labbra grosse ma non tumide, naso un po’ schiacciato e una capigliatura nerissima e ricciuta come quella dei negri. Il suo costume non differiva molto da quello dei cacciatori delle grandi praterie dell’ovest: giubbetto di tela greggia arabescato da cordoncini azzurri, stretto ai fianchi da una larga cintura un paio di pantaloni di pelle di daino, grandi uose e un berretto di pelle di volpe.

— Siete voi, signore? chiese, facendo cadere la luce della lanterna sull’ingegnere. Credeva di non vedervi con questa notte orribile.

— Non ho paura della pioggia e del vento, Burthon, rispose il cavaliere. Appena ricevetti la tua lettera saltai in sella e partii ventre a terra. Cosa desideri?

— Entrate, prima di tutto, sir John.

L’ingegnere e Burthon entrarono nella casupola. Si trovarono in una stanzetta illuminata da un gigantesco fuoco che ardeva sul camino e arredata miseramente. C’erano tre o quattro sedie zoppe, una tavola, alcune selle e alcuni finimenti da cavallo, alcuni fucili appesi ad un chiodo, due o tre di quei solidi coltelli che chiamansi bowie-knife, dei corni probabilmente pieni di polvere da sparo e delle pelli di cervo e d’orso tese a seccare.

Burthon sturò una bottiglia di wisky, empì un bicchiere e lo diede all’ingegnere.

— Bevete, sir John, disse. È di quello buono. Ed ora, ditemi: il vostro cavallo può fare altre sei miglia di galoppo?

— Perchè questa domanda? chiese sir John.

— Dobbiamo partire subito.

— Hai scoperto le tracce di qualche orso? Tu ti ricordi sempre di me quando c’è da fare un bel colpo di fucile.