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92 capitolo xii.


Un urlo di disperazione irruppe dal petto dei quattro uomini che si videro irremissibilmente perduti. Ritti, l’un accanto all’altro, pallidi di terrore gli uni, di rabbia gli altri, contemplavano, impotenti, come affascinati, il gigantesco imbuto che emetteva boati formidabili ripetuti da tutti gli echi delle gallerie e delle caverne.

— Sir John! sir John! gridò Burthon.

— Aiuto, signore! urlò O’Connor pazzo di terrore.

— Alla macchina! gridò sir John. Forse tutto non è perduto.

Morgan si slanciò verso la macchina, aprì il forno e vi cacciò dentro la mano.

— Il fuoco è spento! esclamò. E d’altronde l’elica è spezzata!

Era finita. Il battello, non frenato da alcuna cosa, s’avanzava rapidamente, sbandato sul tribordo, seguendo il pendio rapidissimo di quel mostruoso imbuto. La distanza spariva da un istante all’altro; il giro a poco a poco diventava più piccolo. La catastrofe era imminente.

L’ingegnere, impotente dinanzi a quel mostro mille volte più forte di lui, attendeva con una calma straordinaria che il battello venisse inghiottito. Ai suoi fianchi urlavano Burthon e O’Connor. Morgan, ritornato padrone di sè stesso, tranquillamente si spogliava, sperando forse di uscire ancora da quella tomba.

I secondi passavano rapidi qual lampo. Il battello s’inclinava sempre più a tribordo, e al rossastro chiarore della lampada vedevasi la sua prua immergersi e rialzarsi sulle onde furenti.

Già non mancavano che due metri, quando un cozzo fortissimo avvenne a prua. Sir John comprese subito che qualche cosa di straordinario