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128 emilio salgari


Seghira non si mosse, ma sorrideva d’un riso strano.

– Ebbene? – le chiese il dottore, passandole accanto.

– Quell’uomo è mio – rispose ella, con voce sorda. – Cadrà fra le mie spire.



XVII.

Sotto l’Equatore


L’uragano che aveva causato la perdita della Guadiana, a poco a poco si calmava. Le nubi, squarciate dalle ultime raffiche e dalle ultime scariche elettriche, si erano per così dire sminuzzate, dileguandosi negli immensi spazi celesti e più non si vedevano; il vento da qualche ora aveva cessato bruscamente di soffiare; i tuoni, dopo d’aver brontolato a lungo sul lontano orizzonte settentrionale, si erano spenti e le onde si spianavano rapidamente, come se avessero perduto tutta la loro terribile forza in quella formidabile lotta.

La zattera, dopo di essere stata violentemente scossa in tutti i versi e di essere stata più volte spazzata dai marosi che superavano facilmente il ponte, era rimasta quasi immobile, perduta su quell’immenso Oceano, sotto una pioggia di raggi infuocati, scottanti, mordenti.

L’equipaggio, dopo d’aver messo un po’ d’ordine su quel galleggiante ingombro di casse, di cassette, di barili e di botti e di aver sciolto la gran vela, si era sdraiato sotto un pezzo di tela tesa a poppa, per gustare un po’ di sonno e rimettersi dalle fatiche della notte. Soli pochi uomini erano rimasti in vedetta, alcuni per la manovra, altri con la speranza di scoprire qualche nave in rotta per l’Atlantico meridionale, o per l’America del sud, o pel Capo di Buona Speranza.

Anche Kardec si era sdraiato sotto la tenda e così pure Seghira, sotto quella rizzatale a prua da Niombo.

Il dottore invece si era assiso a poppa, presso Vasco che teneva la barra del timone, e guardava distrattamente le onde che venivano a infrangersi sui bordi della zattera con lunghi brontolii.

Un leggero venticello si era alzato e spingeva il galleggiante verso l’est, in direzione delle coste d’Africa, che erano pur tanto lontane.