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202 emilio salgari

occhi spaventosamente sbarrati, fissi sulla giovane africana, che lo contemplava con profondo disprezzo.

– Seghira – rantolò.

– T’odio! – diss’ella con voce cupa.

– No... non è possibile... tu mi ami!...

– T’odio, ti ripeto, assassino del capitano Alvaez.

– Taci... tu mi fai paura... io ti amo, Seghira... tu menti... io non ho ucciso nessuno! – esclamò il miserabile, facendo sforzi sovrumani per spezzare i legami.

– No, – ripetè l’implacabile africana. – Tu hai ucciso il capitano Alvaez, l’uomo che io amavo e tu morrai.

– Non l’ho ucciso!...

– Me lo hai confessato tu, la notte che mi dicesti di amarmi, a bordo della zattera, in mezzo all’oceano.

– Tu menti!...

– Niombo ti ha udito.

– È vero – disse il negro.

– Miserabile!...

Niombo si avanzò.

– Tu, – disse, – neghi ciò che hai spontaneamente confessato, perchè la morte ti fa paura. Avevo previsto ciò, ed ho fatto preparare il cambambù!

– Sei un cane!... – urlò Kardec.

Niombo alzò le spalle con disprezzo e volgendosi verso i suoi negri, che avevano formato un immenso cerchio intorno ai prigionieri, disse:

– Si porti il cambambù!

In tutta l’Africa centrale, ed anche nell’Africa meridionale, è grandemente in uso la prova del giuramento. Quando un uomo viene accusato d’un delitto e lo nega, per provare la sua innocenza o colpabilità, gli si fa inghiottire il cambambù, il quale porta diversi nomi, secondo le tribù e le regioni.

Nell’Africa meridionale si chiama la n’gaje; i Bengalos lo chiamano invece lo n’dua, i Lunda il maagi.

È una strana infusione composta della polvere d’una scorza d’una specie di acacia e di acqua, con la quale si compone una pasta di color rossastro, che produce dei violenti vomiti sanguigni, dovuti forse a qualche corpo assai astringente.

Uno stregone chiamato pure cambambù, somministra quell’infusione all’accusato, dopo di avergli messo dinanzi un pezzo di stoffa rigata, dodici bastoncini di lunghezza eguale, della scorza d’agade ed un becco di pappagallo.