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il deserto di gobi 113

CAPITOLO XV.

Il deserto di Gobi.

Il veliero segnalato da Fedoro, era una di quelle massiccie navi che i cinesi chiamano ts’tao ch’wan, che il governo imperiale ha ormai relegate sui grossi fiumi, dopo la riorganizzazione della flotta, onde tenere in freno i pirati che pullulano su tutti i corsi d’acqua dell’interno.

Mostruose carcasse, del resto, che non offrono alcuna resistenza al tiro delle moderne artiglierie e che non sono affatto maneggevoli, di forme barocche e tozze, pessimi velieri, insomma.

Scorgendo i manciù, i quali facevano numerosi segnali il comandante della nave aveva modificata la sua rotta per andarli a raccogliere, immaginandosi che qualche motivo imperioso richiedesse il suo appoggio.

Sapendo Fedoro che le giunche da guerra portano cannoni e numerosi equipaggi, aveva consigliato Rokoff di gettarsi subito dietro l’isolotto, onde non rimanere esposti al fuoco del veliero.

— Vi giungeremo prima che la giunca abbia imbarcati i manciù, — disse il capitano. — Ha da percorrere ancora un miglio e questo tempo sarà a noi bastevole.

— E potremo resistere noi, se lo Sparviero non sarà pronto a spiccare il volo?

— Ho veduto le ali a muoversi, quindi è segno che il macchinista ha compiuto la saldatura. Signor Rokoff, appoggiate sull’isola. Vedo i manciù fare dei segnali alla giunca.

— Ancora pochi colpi di remo, signore, — rispose il cosacco il quale arrancava furiosamente.

In quel momento si udì la voce del macchinista gridare:

— Capitano! Quando vorrete!

— Hai finito?

— Sì, signore e lo Sparviero è pronto ad innalzarsi. —

La scialuppa non era che a pochi passi dalla riva e la giunca non era ancora arrivata là dove si erano aggruppati i manciù.

— A terra! — gridò il capitano.

Si erano appena slanciati fra le erbe, quando in lontananza si udirono delle strepitose detonazioni che si ripercossero lungamente sotto le piante che coprivano le sponde.