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la nuova guinea 145


chiamato da loro tiidako, fabbricato colle fibre d’una corteccia d’albero, ma avevano abbondanza d’ornamenti: collane di denti di maiale e di scagliette di tartaruga e braccialetti di spine di pesce e di conchiglie.

Uno solo indossava una specie di camicia di tela rossa, ma quello doveva essere il koranas, ossia il capo.

Erano tutti armati di lancie, di pesanti sciaboloni chiamati parangs ed alcuni portavano delle cerbottane di bambù, le quali dovevano contenere delle freccie intinte nel succo estremamente velenoso dell’upas.

La loro piroga s’avvicinava all’isolotto inoltrandosi lungo la spiaggia occidentale, ma con grande fatica, non trovando forse acqua sufficiente, quantunque la marea montasse con discreta rapidità.

Giunti a circa centocinquanta metri, s’arrestarono bruscamente. Pareva che la piroga si fosse arenata, poichè si videro i pirati correre da prua a poppa osservando la corrente, poi mandare delle grida furiose.

— Si sono arenati, disse il capitano.

— Ma la marea sale e fra poco ci raggiungeranno, disse Wan-Horn.

— Se cominciassimo il fuoco? chiese Cornelio. Sapendoci provvisti di armi, potrebbero spaventarsi e rinunciare all’attacco.

— L’idea non è cattiva, Cornelio, ma finchè non aprono le ostilità, non sprechiamo le nostre palle. Per ora non ci hanno fatto nulla.

— E se approfittassimo della loro immobilità per fuggire? disse Horn. Aspettando, avremo addosso anche l’equipaggio della seconda piroga.

— Ma dove ci condurrà questo fiume? chiese Cornelio.

— Non ne so più di te rispose il capitano. Lo risaliremo finchè troveremo un luogo adatto per accamparci e quando i pirati saranno ripartiti, riguadagneremo il mare e continueremo il viaggio.

— Imbarchiamoci, signor Wan-Stael. Ecco la seconda piroga che giunge.

Il marinaio non si era ingannato. La seconda piroga, che era rimasta indietro, era giunta alla foce del fiume e cercava di unirsi all’altra che era ancora arenata.