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186 capo xviii.


decumanus chiamato dai malesi bua kadangsa, ottimi a mangiarsi.

Calmata la fame, rassicurati dal silenzio profondo che regnava sotto quella gigantesca foresta e sulle rive del fiumicello, si sdraiarono in mezzo ad una folta macchia di cespugli e s’addormentarono tranquillamente, in attesa del sole. Il loro sonno non fu turbato da alcun avvenimento. Le grida d’una banda di pappagalluzzi che aveva preso dimora fra i rami d’un gigantesco tek, li svegliò ai primi albori.

— Erano molte notti che non dormivo così bene, disse Cornelio, che si stirava le membra. Era tempo che i pirati ci concedessero un po’ di riposo.

— Si ode nulla? chiese il capitano.

— Non odo che gli uccelli a chiacchierare, zio. Pare che il combattimento sia finito.

— Avessero almeno avuto la peggio i pirati, disse Wan-Horn. Ci lascerebbero tranquilli per sempre.

— Lo sapremo presto, vecchio mio.

— Contate di riguadagnare il fiume, signor Stael?

— Sì, Horn: sono inquieto per la nostra scialuppa.

— Però ci lascerete prima far colazione. Il mio stomaco è vuoto e non può accontentarsi di sole frutta.

— Io mangerei volontieri un paio di bistecche, disse Hans. La selvaggina non deve mancare in questa foresta.

— È anzi vicina, disse il chinese, che da qualche istante osservava attentamente le piante acquatiche.

— Hai scoperto qualche animale? chiese Cornelio, alzandosi col fucile in mano.

— Guardate laggiù: non vedete le piante del fiume a muoversi?

— È vero, disse il giovanotto. Che vi siano dei grossi pesci, in questo corso d’acqua?

— O qualche coccodrillo? disse Wan-Horn.

— No, disse il capitano. Laggiù vi è una colazione deliziosa, vecchio mio.

Wan-Stael non s’ingannava: attraverso alle piante acquatiche si vedevano avanzarsi sui banchi di sabbia degli animali bizzarri, di forma circolare, ma un po’ allungata, del diametro di oltre mezzo metro, con delle brevi gambe che pareva uscissero da una specie di scudo.