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20 | emilio salgari |
— Forse un amico — rispose Nadir.
Staccò dalla parete un pesante fucile incrostato di madreperla, raccolse la lampada di Mirza e uscì inoltrandosi nel corridoio.
Giunto all’estremità, si affacciò ad una feritoia fugando i falchi che vi si erano rifugiati e guardò al di fuori.
L’uragano andava scemando, quantunque il ventaccio continuasse a urlare sotto le foreste e fra i merli delle torri. A levante, fra uno squarcio delle nubi, brillava l’astro notturno spandendo una pallida luce su quelle rupi e in quei profondi burroni, entro i quali precipitavansi, con indescrivibile fracasso, schiumeggianti torrenti.
— Chi s’avvicina? — gridò.
— Irak — rispose una voce.
— Che vuoi?
— Aiuto dal Re della Montagna.
— Spingi la pietra ed entra.
Ai piedi del torrione si udì un colpo sordo, poi nei corridoi rintronare pesanti passi. Nadir si spinse verso la scala e sporse la lampada.
Un uomo di alta statura, barbuto, avvolto in una specie di mantello di pelle d’agnello nero e con pesanti stivali ferrati, apparve. In una mano aveva un nodoso bastone e nella cintura un lungo pugnale senza fodero.
— Irak ti saluta, Re della Montagna — diss’egli.
— Nadir ti contraccambia, amico — rispose il giovanotto. — Qual motivo ti guida qui ad un’ora così tarda?
— Una disgrazia.
— Toccata a chi?
— Ad uno dei fratelli della Montagna.
— Chi è?
— Il prode Harum.
— Quale disgrazia toccò al valoroso montanaro?
— Odimi, Re della Montagna. Tu sai che ci rechiam sovente a Teheran a far le nostre provviste e a vendere i frutti delle nostre cacce. L’altra mattina Harum, assieme a Festhali, si recò alla città ed ebbe a questionare con una guardia del re. Harum è prode e ha il sangue caldo. Offeso, trasse il kandjar e passò il cuore dell’offensore.
— Ha fatto bene. I fratelli della Montagna si rispettano.