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6 emilio salgari

È questo il Demavend, detto anche Elvind, un cono gigantesco alto 4000 metri, contornato pure da altipiani bellissimi, da valli profonde, da abissi e da burroni.

Folta è la vegetazione alla sua base, ma più si sale più gli alberi divengono radi, succedono nude rocce per lo più di una tinta oscura, a mala pena abbellite da magri cespugli, poi vengono le nevi, le quali non si squagliano nemmeno nell’estate, e coprono tutta la cima del cono, cima dritta, con certi fianchi che sfidano gli artigli di qualunque agile fiera, cima non ancora raggiunta, che si sappia, da alcun essere umano, e che di quando in quando lancia cortine di fiamme di tinta sanguigna e boati lunghissimi, che scuotono fino alla base tutta quell’enorme massa di rocce, di boschi e di nevi.

La sua vicinanza alla capitale persiana ha fatto sì che non poche tribù vi abbiano preso stabile dimora. Infatti ad una certa altezza sorge un fiorente villaggio che prende il nome dal monte, e nelle circonvicine valli si ergono abitazioni e tende in non piccolo numero.

Però, più in su, oltre i boschi, gli abitanti diventano radi e le abitazioni ancor più rade. Solo pochi cacciatori, per lo più banditi per molte cause dalla vicina capitale, che vivono in miseri tuguri o dentro caverne, o fra le rovine di alcune vecchie torri erette da tempo immemorabile, sfidano le burrasche di neve che di quando in quando si scatenano e gli spaventevoli uragani che nelle stagioni calde imperversano con furia incredibile, abbattendo alberi e rupi insieme, cacciando nei sottoposti piani gli agili onagri e perfino le aquile.

La sera del 30 dicembre 1796, quel gigantesco cono offriva uno spettacolo terribile. Immense nuvole, nere come la pece, spinte da un gagliardo vento che veniva dal Caspio, correvano all’impazzata sopra le cupe foreste, sopra le scabre cime, sopra le nevose vette, accavallandosi le une sulle altre, lacerandosi, mescolandosi e rimescolandosi, come se fra loro ferocemente combattessero.

Fuggivano atterriti gli egagri dalle lunghe e robuste corna; schiamazzavano i falchi ed i merops, impotenti a lottare colle possenti ali della burrasca; calavano a stormi, nei piani inferiori, le aquile dal fulmineo volo; si celavano nelle caverne i banditi e si rinchiudevano nei tuguri i cacciatori; gemevano e si curvavano come fuscelli di paglia i vigorosi faggi, gli alti pioppi, i giganteschi platani dal fitto fogliame; ruggiva il vento giù negli spaventevoli abissi e attorno alle eccelse sommità, e là, in alto, fra le sbrigliate nubi, strideva o scrocciava il tuono.