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capitolo iii. — il rapimento. 27

In pochi istanti i cinque uomini si trovarono su di una stretta viuzza fiancheggiata, a destra e a sinistra, da stupende palme con le grandi e piumate foglie disposte a ventaglio.

Il francese lanciò un acuto sguardo verso il luogo dove udivasi il doppio galoppo. L’astro notturno che splendeva in un cielo senza nubi, versando sulle piantagioni e sui boschi i suoi raggi azzurrini, permetteva di discernere una persona qualunque a grande distanza; ma sul verdeggiante sentiero non scorgevansi ancora i cavalieri.

— Abbiamo cinque o sei minuti di tempo, — mormorò il signor di Chivry.

Si volse verso il capo e gli chiese:

— Siete un buon tiratore?

— Volete uccidere il servo?

— È inutile; ma occorre far cadere i cavalli.

— Vi faccio osservare, Eccellenza, che talvolta una e anche due palle, non bastano per abbattere un cavallo spinto al galoppo; e poi la fazenda non è molto lontana, e potrebbero accorrere gli schiavi e i sorveglianti.

— Avete ragione, signor de Aguiar; cosa mi consigliate di fare?

— Ho un piano migliore.

— Mettetelo fuori.

— Tendiamo una fune attraverso al sentiero, nascosta fra le erbe. I cavalli urteranno e cadranno sul colpo, sbalzando di sella i cavalieri.

— Siete più furbo di quello che credevo: all’opera! —

Il capo, aiutato dai suoi uomini tese la fune, legandola solidamente ai tronchi di due palmizi. Essendo l’erba del sentiero assai alta, poteva sfuggire agli occhi più acuti.

Avevano appena terminato, che in fondo al sentiero si videro apparire i due cavalieri. I loro destrieri, che erano bianchi di schiuma e che dovevano essere di buona razza, s’avanzavano di gran galoppo. Il francese armò le sue pistole, dicendo ai suoi uomini che si tenevano imboscati dietro a un cespuglio:

— Siate pronti a impadronirvi dei cavalieri, e se i cavalli non cadono fate fuoco!... —