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il treno volante 205


Seduti sulle panchette, molto stretti, stavano trenta negri, i quali percuotevano con le pagaie i bordi della scialuppa cantando a piena gola.

Un altro negro, che portava un gonnellino di percalle rosso e che aveva delle penne di struzzo infisse fra i capelli, eseguiva una danza, girando e saltellando sulle panche, accoccolandosi fra gli spazi, poi balzando sopra i remiganti come se fosse indemoniato.

— Che cosa fanno? — chiese Ottone, stupito.

— Salutano la terra — rispose El-Kabir, ridendo.

— Non comprendo.

— Quando i navigatori del lago giungono presso la costa o su qualche isola, prima di prendere terra gridano e saltano per richiamare l’attenzione degli abitanti.

— Credono che qui ci siano degli abitanti?

— Forse hanno veduto il fumo che si innalzava dal nostro campo.

— Cosa facciamo?

— Lasciamoli urlare — disse Matteo. — Mostrandoci, nulla abbiamo da guadagnare.

— Padrone — disse Heggia volgendosi verso l’arabo, — vedo degli altri canotti muovere a questa volta.

— Che abbiano intenzione di attaccarci? — chiese Matteo. — Non mi fido affatto di questi negri.

— I bianchi non sono ben visti su queste rive — disse El-Kabir. — Qui vengono trattati come stregoni.

— Allora allontaniamoci e presto.

— È quello che volevo proporvi. Guardate, vi sono altri quattro canotti che si dirigono a questa volta, e vedo dei negri armati di fucili.

— Venite, amici — disse Ottone. — Le palle potrebbero guastare il nostro Germania.

Tornarono sollecitamente al campo e si misero a scaricare la zavorra che si trovava sulla piattaforma, sostituendovi il loro peso.