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Le vittime della guerra. 189

— Nega che tu hai divorato il padre di quel guerriero, il capo e suo figlio.

— Fammi libero e mangerò te e tutti i tuoi, — rispose fieramente il tupy.

— Noi ti proveremo ed io mi preparo a darti il colpo mortale, giacchè tu affermi di aver ammazzati i miei guerrieri e tu sarai divorato in questo giorno istesso.

— Questi sono i casi della vita, — rispose il prigioniero scrollando le spalle. — I miei amici sono numerosi e un giorno mi vendicheranno.

— Ha del coraggio quel giovane, — disse Alvaro al ragazzo indiano che gli aveva tradotte le risposte del prigioniero.

— Era un valoroso, signore, figlio d’un grande guerriero.

— Peccato che noi non possiamo far nulla per salvarlo.

— Gli Eimuri diverrebbero furibondi. Lasciateli fare. —

Due selvaggi avevano legato al prigioniero le gambe, lasciandogli però libere le braccia.

Il tupy si mise allora a dimenarsi come un forsennato sfidando tutti ad assalirlo, essendo concesso ai prigionieri il diritto della difesa.

Vedendo i guerrieri del capo avanzarsi, raccolse quanti sassi si trovavano presso di lui, scagliandoli contro i nemici. Ruggiva come una belva e quantunque avesse le gambe legate balzava coll’agilità d’una gazzella.

Il cerchio però si stringeva sempre più attorno a lui ed il capo aveva alzata la mazza.

Per qualche istante lo si vide roteare e tempestare di pugni gli avversari, poi risuonò un colpo secco.

La liwara-pemme del capo gli aveva fracassato il cranio, facendolo stramazzare al suolo fulminato.

— Andiamocene, — disse Alvaro, nauseato, mentre gli Eimuri si scagliavano, ruggendo come fiere, sul cadavere ancor caldo del tupy. — Questi assassini mi ributtano. —

E preso il mozzo per una mano lo trasse verso la capanna, mentre il disgraziato guerriero veniva gettato sulla graticola.