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200 | Capitolo Ventunesimo. |
— Il serpente si è scelto un bel rifugio, — disse Alvaro al ragazzo indiano che gli camminava dinanzi. — Siete sicuri che si trovi qui?
— È stato veduto anche ieri, signore, — rispose l’interprete.
— È molto grosso?
— Quanto il vostro corpo.
— È lungo molto?
— Il doppio d’un sucuriù e d’una voracità estrema. È già il sesto indiano che divora.
— Che cosa sarà dunque?
— Un liboia, signore.
— Ha qualche tana in questa foresta?
— Si tiene sempre sugli alberi, anzi quando saremo più innanzi, vi consiglio di guardare sempre in aria. Ha l’abitudine di attorcigliarsi intorno a qualche grosso ramo e di lasciarsi cadere di colpo addosso alla preda.
— Mi guarderò, — disse Alvaro. — E tu Garcia, sta sempre presso di me giacchè sono più che convinto che nel momento del pericolo questi valorosi scapperanno come un branco di conigli.
— E noi ne approfitteremo, è vero signor Alvaro?
— Per fuggire dalla parte opposta, — rispose il portoghese. — Non ci lasceremo sfuggire una così bella occasione. —
In quell’istante il capo, che seguiva quattro dei suoi incaricati ad aprire il passaggio, fece un cenno colla mano.
— Che cosa c’è? — chiese Alvaro al ragazzo indiano.
— Il capo vi avverte che siamo sul luogo ove il rettile è stato veduto e vi consiglia di guardare attentamente gli alberi sotto i quali passerete.
— I miei occhi sono buoni e un serpente di tale mole si scorgerà facilmente.
— Non sempre, signore, potendosi scambiare facilmente per un ramo, in causa della tinta verde cupa del suo dorso. —
Gl’indiani avevano rallentato il passo e non abbattevano più le liane onde il rettile non si spaventasse e fuggisse passando d’albero in albero.
Le scostavano con precauzione o le alzavano finchè i due pyaie erano passati, lasciandole poi ricadere.
Ogni dieci o dodici passi poi si fermavano, guardando attentamente fra le foglie immense delle piante e mettendosi poi in ascolto.