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La scomparsa del mozzo. 255

— Il mio vulrali è di prima qualità, — disse Diaz, ridendo.

Raccolsero il gatto e tornarono nella canoa, contando di arrostirlo su una isoletta che sorgeva a due o trecento metri dalla spiaggia e dove almeno non correvano alcun pericolo di venire disturbati.

Attraversarono rapidamente quel braccio d’acqua che li separava da quella piccola terra e tirarono la canoa sulla riva.

— Prendete una pentola, — disse il marinaio. — Lo metteremo in stufato.

— Sarà almeno buono? — chiese Alvaro. — Non ho mai avuta alcuna fiducia nella carne dei gatti.

— Tutti gl’indiani li mangiano: d’altronde non abbiamo di meglio e..... —

Si era interrotto guardando con una certa inquietudine fra le piante che coprivano l’isoletta.

— Che cosa avete? — chiese Alvaro, vedendolo cacciare rapidamente una freccia nella gravatana.

— Vedo la punta d’una capanna, — rispose il marinaio.

— Che sia abitato quest’isolotto.

— Vi dovrebbe essere allora qualche piroga ed io non ne ho veduta alcuna.

Armate il fucile e andiamo a vedere. —

Si aprirono il passo fra le piante che ingombravano l’isolotto e giunsero ben presto presso una tettoia formata da pochi bastoni incrociati alla meglio e coperta da uno strato di foglie di banano.

— Non vedo nessuno, — disse il marinaio.

Si avanzò tenendo la gravatana all’altezza del mento per essere più pronto a soffiarvi dentro e si cacciò sotto la tettoia.

Non vi era alcuno, ma il suo proprietario non doveva averla lasciata da molto tempo, perchè in un canto, fra due sassi, si vedeva una pentola che conteneva ancora dei tuberi quasi freschi e delle cuie, ossia dei vasi formati con zucche, che sembravano pulite di recente.

Sospesa ad una traversa vi era un’amaca di grosso filo di cotone a varie tinte che serviva da letto, poi dei vasi di terra porosa per depurare l’acqua ed altri oggetti dei quali Alvaro ignorava l’uso.

— Prendiamone possesso, — disse il marinaio che pareva lietissimo di quella scoperta.

— Dove sarà andato il suo proprietario? — chiese Alvaro.