Pagina:Salgari - L'Uomo di fuoco.djvu/286

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280 Capitolo Ventottesimo.

credendo di aver realmente vicino uno di quei pericolosissimi rettili.

Un sibilo eguale rispose poco dopo dietro la palizzata, quindi si udirono dei crepitìi ed una larga tavola fu alzata lasciando un varco appena sufficiente a lasciar passare un uomo.

Rospo Enfiato, colla gravatana appoggiata alle labbra entrò pel primo, seguito da Alvaro che teneva il dito sul grilletto dell’archibugio e quindi dal marinaio.

Japy era sorto dall’ombra facendosi innanzi. Un rapido scambio di parole s’impegnò fra Diaz ed il ragazzo.

— Si sono accorti di nulla?

— No.

— Dormono tutti?

— Tutti.

— Anche i guerrieri che vegliano sul carbet di Garcia?

— Hanno lasciato spegnere il fuoco.

— Lo sa Garcia che noi siamo qui?

— Ho potuto avvertirlo.

— Benissimo: avanti, — disse il marinaio.

A destra ed a sinistra della porta s’alzavano delle enormi abitazioni rettangolari le quali proiettavano un’ombra fittissima.

I tre uomini, preceduti dal ragazzo, col cuore trepidante, la fronte bagnata di sudore, s’avanzavano lentamente, sulle punte dei piedi, tenendosi contro le pareti dei carbet.

Attraverso le cinte d’altronde mal connesse e difese da semplici stuoie di foglie di palmizi, si udivano gli abitanti a russare.

Avevano già oltrepassati quattro o cinque carbet e stavano per giungere sulla piazza sulla quale si macellavano e si arrostivano i prigionieri, quando Japy si arrestò serrandosi contro una parete e rannicchiandosi su se stesso.

— Che cosa c’è? — chiese Diaz che lo aveva raggiunto.

— Mi è sembrato d’aver veduta un’ombra umana svoltare l’angolo del carbet che ci sta di fronte.

Carracho! Che tu sii stato seguito?

— Eppure quando io ho lasciato il mio carbet tutte le famiglie dormivano.

— Hai lasciata aperta la porta della cinta?

— Sì, padrone.

Stettero parecchi minuti rannicchiati addosso alla parete, ascol-