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Fra il fuoco e le freccie. 303

Mai fuga era stata più completa, nè più rapida.

— Signore, — disse il mozzo, sorpreso da quella improvvisa ritirata. — Che colpo maestro avete fatto voi?

— Credo di aver ucciso il capo della tribù, — rispose Alvaro. — Erano già parecchi minuti che lo spiavo per mandarlo all’altro mondo con una palla nel petto o nel cervello.

— Che ne abbiano abbastanza?

— È quello che vedremo, mio caro Garcia.

— Non si scorgono più.

— Se quello che ho ucciso è veramente un capo non lo lasceranno lì. Ah! Ecco, li vedi avanzarsi strisciando dietro i tronchi degli alberi? Vanno a raccogliere il cadavere.

— Li vedo, signore.

— Quel selvaggio doveva essere un personaggio importantissimo. —

Degl’indiani usciti dal carbet più vicino, strisciavano in mezzo ai tronchi d’albero, cercando di avvicinarsi al cadavere del capo.

Alvaro avrebbe potuto fucilarli con tutta facilità, giacchè dall’alto del tetto li scorgeva distintamente, invece li lasciò fare. Non voleva inasprirli maggiormente, dopo il furioso assalto tentato pochi minuti prima e che per poco non aveva avuto terribili conseguenze.

Vide raccogliere il cadavere del guerriero e trasportarlo in uno dei carbets più prossimi.

— Sì, — disse al mozzo che lo interrogava. — Devo aver ucciso uno dei più famosi guerrieri.

— Mi stupisco che non cerchino di vendicarlo, — rispose Garcia.

— Rimanderanno la vendetta a momento più opportuno. Mio caro ragazzo, difendiamoci disperatamente perchè se cadiamo vivi nelle mani di quegli antropofagi, chissà a quali spaventevoli torture ci sottoporranno, prima di metterci sulla graticola.

— Signor Alvaro, comincio a disperare.

— Io non ancora, — rispose il signor Viana. — Finchè avremo palle, polvere e viveri non dobbiamo perderci d’animo.

— Sperate sempre nei Tupinambi?

— Sempre, Garcia.

— Se giungessero prima di domani!

— Lasciamo i selvaggi e mangiamo un boccone giacchè ci lasciano tranquilli. —