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342 la città dell'oro

lunghe pertiche sostenute da dodici robusti indiani e trasportati attraverso la foresta con grande rapidità. Avevan loro lasciate libere le braccia e le gambe, ma quei quattro o cinquecento indiani li seguivano da vicino, portando con loro le lance e le cerbottane.

Tre ore dopo quella turba si arrestava dinanzi ad un grandioso fabbricato di pietra, perfettamente rettangolare, sostenuto all’ingiro da ventiquattro colonne adorne di lamine d’oro e col tetto coperto da lastre d’egual metallo, le quali scintillavano sotto i raggi del sole.

Don Raffaele ed i suoi compagni furono fatti scendere e rinchiusi in una grande sala colle pareti pure di pietra e che riceveva la luce da due spaziose finestre, ma aperte a venti piedi dal suolo.

L’unico ornamento che si vedesse, era l’immagine del sole formato da un grande disco d’oro con i raggi d’argento, collocato all’estremità della sala, di fronte alla porta d’ingresso.

— Voi rimarrete qui fino a che Yopi avrà deciso sulla vostra sorte, — disse l’indiano a cui si erano arresi. — Non temete nulla e riposate tranquilli.

Poi tutti gl’indiani uscirono chiudendo e sprangando la porta.

— Dove ci hanno condotti? — chiese Alonzo, che non si era ancora rimesso dal suo sbalordimento.