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140 | Capitolo ventesimo |
da parecchi negri armati di vecchi fucili e di lance, i quali dovevano servire di scorta al rappresentante della giustizia.
Quegli uomini erano comandati da un corriere del re, giunto forse di recente ad Abetifi, personaggio molto importante e che col suo costume dava un’idea del lusso della corte di S. M. Mensah.
Era coperto di piastre d’oro massiccio e d’un peso tale da rendergli molto malagevole il cammino, e sul capo portava un sacco adorno di penne d’aquila formanti una specie di ventaglio. In una mano poi portava un piccolo scettro reale, una specie di spada coll’impugnatura coperta da un pezzo di pelle di leopardo.
I due europei, il dikero ed il seguito riattraversarono la città e s’arrestarono sotto una grande tettoia eretta in mezzo alla piazza del mercato e guardata da alcuni negri armati, i quali respingevano la folla che si pigiava attorno a quella costruzione, con un’abbondante ed incessante distribuzione di legnate.
In mezzo alla tettoia vi era il ladro, con la destra chiusa entro un anello di ferro infisso in un grossissimo macigno e colle gambe incatenate.
Era un negro ancor giovane, perchè non doveva avere più di venticinque o trent’anni, dall’aspetto furbo, dagli sguardi intelligenti, ma dai lineamenti duri, quasi feroci.
Quantunque dovesse essere ormai convinto di non uscire vivo dalle mani dei suoi nemici, guardava alteramente la folla e scherzava coi suoi guardiani.
Quando però vide i due europei, manifestò una viva inquietudine ed i suoi sguardi divennero cupi.
— Ci riconosci?... — gli chiese Alfredo, avvicinandoglisi.
— Sì, — rispose il prigioniero.
— Non credevi di vederci qui così presto.
— È vero. Credevo che le formiche o gli elefanti vi avessero uccisi.
Poi, dopo alcuni istanti di silenzio, aggiunse con fatalistica rassegnazione:
— Ho perduto e pagherò.
— Posso tentare di salvarti, — disse Alfredo.
— È inutile: gli Ascianti sono miei nemici e mi uccideranno, e poi, se non lo facessero essi, non mi perdonerebbero nè Kalani, nè Geletè.