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152 Capitolo ventiduesimo

Il portoghese si era arrestato dinanzi ad un albero ma d’una mole così enorme, che mai prima di allora ne aveva veduto uno eguale.

Quel colosso della vegetazione, che si rizzava maestosamente, formando da solo una piccola foresta, era tale da meravigliare anche lo stesso Alfredo.

Il suo tronco non aveva più di cinque metri d’altezza, ma era così grosso da averne almeno dieci di circonferenza.

Sopra quell’ammasso di legno si dipartivano dei rami lunghi una ventina di metri, i quali s’incurvavano verso terra formando una cupola immensa, forniti di folto fogliame e sostenenti certe specie di capsule di forma ovoidale, assai acuminate ad una delle estremità e grosse come la testa d’un uomo.

Una numerosa banda di scimmie della specie dei cercopitechi aveva preso stanza fra i rami del colosso, divorando avidamente quelle grosse frutta che dovevano essere molto deliziose pei palati di quei coduti quadrumani.

— Un baobab forse?... — chiese Antao ad Alfredo.

— Sì, amico mio.

— Ebbene, Alfredo, non credevo che tali alberi avessero delle dimensioni così mostruose. Ma guarda che tronco enorme! Nel suo interno vi potrebbero danzare venti persone.

— Lo credo, Antao, ma probabilmente la sala sarà occupata da funebri personaggi, ben brutti da vedersi.

— Cosa vuoi dire?...

— Voglio dire che forse l’interno sarà occupato da qualche dozzina di negri mummificati, essendovi in questi paesi l’abitudine di servirsi dei tronchi di baobab come di camere mortuarie.

— Sistema niente affatto comodo, se i becchini devono scavare questi colossi.

— Non così difficile come credi, essendo il legno di questi alberi molto tenero.

— E non servono a null’altro, questi giganti?...

— Sì, poichè i negri sanno trarre altri vantaggi da queste piante.

— A me sembra che servano solamente alle scimmie, le quali fanno una vera strage di quelle frutta.

— Sono ricercate anche dai negri. Quelle capsule che vengono comunemente chiamate pane di scimmia, contengono una polpa