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L’incontro con la «Cappella» 267

tannico, ma non era veramente una corsa, poiché i ghiacci di tratto in tratto le ostacolavano la marcia, facendole perdere molto tempo preziosissimo.

Talvolta lo sperone della nave non bastava a rompere i margini dei banchi, ed allora i marinai dovevano scendere sul ghiaccio e attaccarlo col piccone e con le seghe, fatica straordinaria, ma che però tutti sopportavano senza lagnarsi.

Non ostante quei continui ostacoli, il buon umore regnava costantemente a bordo. S. A. R. d’altronde incoraggiava tutti a compiere il loro dovere, ora con una buona parola, ora con uno scherzo, ora con un sorriso e si studiava di mantenerli tutti in buona salute con pasti abbondanti e svariati, nei quali il cuoco canavesano si distingueva sempre con generale soddisfazione.

Chi dava noia erano sempre i cani. Cogli uomini si mostravano docili, specialmente con le guide alpine incaricate della loro pulizia e del loro nutrimento; viceversa poi si azzuffavano ferocemente fra di loro, mordendosi a sangue facendo un tale baccano che talvolta i marinai non riuscivano a udire gli ordini dei comandanti.

Ad ogni momento le guide erano costrette ad accorrere per separarli affinché non si ammazzassero.

Al nord della Terra di Francesco Giuseppe, la selvaggina continuava a mantenersi numerosa. Ogni giorno si vedevano branchi di foche e di morse che giocherellavano sui margini di ghiaccio, offrendo così l’occasione agli ufficiali di fare delle belle fucilate. Specialmente S. A. R. non mancava quasi mai ai suoi colpi, da vero nipote di Vittorio Emanuele, il valente cacciatore di stambecchi. Quelle foche non appartenevano tutte ad una sola specie. Oltre a quelle comuni chiamate laggar dai norvegesi e che s’incontrano dovunque, e quelle groenlandesi a ferro di cavallo sul dorso, se ne vedevano anche parecchie di grandi dimensioni, prima mai vedute dalla maggioranza dei membri della spedizione italiana.

Erano le crestate o foche dal berretto, le maggiori della famiglia, e che posseggono una specie di vescica cutanea lunga venticinque centimetri e alta venti, che l’anfibio quando è irritato gonfia, ma che quando è in riposo lascia ricadere sul naso.