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capitolo ii — gli orsi bianchi 143


L’ascensione era faticosa e anche pericolosa su quei pendii così lisci e così sdrucciolevoli; ma quei due uomini ne avevano compite ben altre sulle coste del Labrador e su quelle della Terra di Baffin, e dopo mezz’ora riuscivano a raggiungere le più alte cime.

Mastro Tyndhall gettò un lungo sguardo all’intorno, riparandosi gli occhi colle mani per vincere quella luce bianca, acciecante, prodotta dal rifrangersi della luce sui grandi campi di ghiaccio e che i naviganti delle regioni polari chiamano ice-blink.

L’ampia baia di Baffin era quasi tutta coperta di packs, di streams, di ice-bergs e di hummoks che la corrente trascinava confusamente verso lo stretto di Davis e verso le coste occidentali della lontana Groenlandia.

Qua e là però si vedevano degli spazi liberi e dei vasti canali, ma che ad ogni istante cambiavano dimensioni pel continuo agitarsi di quei bianchi figli del gelido polo.

Nessuna nave, nessuna barca si vedevano navigare fra quegli spazi liberi e nemmeno alcuna costa si scorgeva sul fosco e ormai nebbioso orizzonte. Solamente pochi uccelli, dei gabbiani, qualche oca bernida e qualche procellaria volavano silenziosamente sui ghiacci, dirigendosi verso il sud.

Mastro Tyndhall fissò l’acuto sguardo verso l’ovest, rimanendo immobile parecchi minuti. Pareva che in quella direzione cercasse di discernere qualche costa, che il nebbione aveva ormai reso invisibile.

– Eppure non dobbiamo essere lontani, mormorò, crollando il capo.

Poi volgendosi verso il compagno, gli chiese:

– Charchot, vedi nessuna terra verso l’ovest?

– Non vedo che nebbia e ghiacci, rispose il marinaio, dopo d’aver guardato con grande attenzione.