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cap. xii. — le caccie del marajah 169


Alzò la carabina e, approfittando del momento in cui l’elefante stava fermo, fece fuoco.

La belva non fece nemmeno un soprassalto.

S’accasciò di colpo, allungandosi fra le erbe.

— Bravo uomo bianco! — gridò il marajah, entusiasmato. — I miei uomini sono dei poltroni al tuo paragone.

Come se quel colpo di fucile fosse stato un segnale, parecchie altre tigri sbucarono fra le canne, mandando ruggiti tremendi.

Un fremito d’orrore percorse le membra di tutti e grida di spavento si levarono fra i battitori, i quali fuggivano da tutte le parti.

L’elefante montato dal francese si appoggiò sulle zampe anteriori, colla testa abbassata, la proboscide piegata indietro, in modo da lasciare le sue zanne prominenti e attese coraggiosamente l’assalto.

Gli altri invece cominciarono a urtarsi confusamente e qualcuno a volgere la schiena, non ostante le grida dei conduttori e dei cacciatori.

Le tigri non assalirono subito. Fecero dapprima parecchi giri, cercando di passare fra gli elefanti e di scagliarsi contro i battitori, i soldati ed i servi.

Jean Baret, vedendo avvicinarsi una tigre, comandò il fuoco.

La belva non fu ferita a morte, e la sua rabbia non fece che aumentare: cogli occhi infuocati, il pelo irto, la bocca spalancata, si scagliò ai piedi dell’elefante, cercando di arrampicarsi fino ai cacciatori.

Con un brusco movimento di spalla e di collo