Pagina:Sannazaro - Arcadia, 1806.djvu/241

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le mie labbra disgiungerti: e, quali che elle si siano, palesare le indotte note, atte più ad appagare semplici pecorelle per le selve, che studiosi popoli per le cittadi; facendo siccome colui, che offeso da notturni furti ne’ suoi giardini, coglie con isdegnosa mano i non maturi frutti dai carichi rami; o come il duro aratore, il quale dagli alti alberi innanzi tempo con tutti i nidi si affretta a prendere i non pennuti uccelli, per tema che da serpi, o da pastori non gli siano preoccupati. Per la qual cosa io ti prego, e quanto posso ti ammonisco, che della tua salvatichezza contentandoti, tra queste solitudini ti rimanghi. A te non si appartiene andar cercando gli alti palagi de’ Principi, nè le superbe piazze delle popolose cittadi, per avere i sonanti plausi, gli adombrati favori, o le ventose glorie, vanissime lusinghe, falsi allettamenti, stolte ed aperte adulazioni dell’infido volgo. Il tuo umile suono mal si sentirebbe tra quello delle spaventevoli buccine, o delle Reali trombe. Assai li fia qui tra questi monti essere da qualunque bocca di pastori gonfiata; insegnando le rispondenti selve di risonare il nome della tua donna, e di piagnere amaramente con teco il duro ed inopinato caso della sua immatura morte, cagione efficacissima delle mie eterne lacrime, e della dolorosa ed inconsolabile vita, ch’io sostegno; se pur si può dir che viva, chi nel profondo delle miserie è seppellito. Dunque, sventurata, piagni, che ne hai ben ragione. Piagni, misera vedova: piagni, infelice e denigrata sampogna, priva di quella cosa, che più cara dal cielo tenevi; nè restar mai di piagnere, e di lagnarti delle tue