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libro quinto - capitolo iv | 249 |
timo magistrato, era lecito prender le armi per opporsi alla
violenta dominazione di quelli di Ghisa, offensori della vera
religione e della legittima giustizia, che tenevano il re come
prigione. Prepararono li congiurati una gran moltitudine, che
disarmati comparissero inanzi al re a dimandar che la severitá delli giudici fosse mitigata e concessa libertá per la conscienzia, con disegno che fossero seguiti da gentiluomini, che
supplicassero contra l’amministrazione de’ Ghisi. La congiura
fu scoperta, e la corte regia per sicurezza si ritirò da Bles,
luoco aperto e opportuno ad una tal esecuzione, ad Ambuosa,
fortezza ristretta: e perciò li concerti furono turbati. E mentre
che li congiurati trattano novo modo, di essi molti furono
trovati in arme e combattuti e morti, altri ancora presi e
giustiziati; e per quietar il tumulto, a’ 18 marzo, per editto
regio, fu concesso venia a quelli che per simplicitá, mossi
da zelo di religione, s’erano conspirati, purché fra ventiquattro
ore deponessero le armi. E poi fece il re anco un editto di
perdono a tutti li riformati mentre che tornassero alla Chiesa;
proibí tutte le radunanze di religione, e diede la cognizione
delle cause di eresia alli vescovi; la qual cosa al cancellier
non piaceva, ma li acconsentí, per timore che non s’introducesse l’inquisizione alla spagnola, come li Ghisi procuravano.
Per il supplicio preso de’ congiurati e per li perdoni pubblicati non si acquietarono li umori mossi, né furono deposte le speranze concepite d’aver libertá di religione; anzi furono eccitati maggiori tumulti populari in Provenza, Linguadoca e Poitú; nelle qual provincie furono chiamati e concorsero anco da sé predicatori da Genéva, per le concioni de’ quali cresceva anco il numero delli seguaci della nova riforma. Il qual concerto tanto universale e repentino fece venir in resoluzione quelli che avevano il governo del regno, che vi fosse bisogno di rimedio ecclesiastico, e ben presto; e da tutto ’l conseglio era proposto un concilio nazionale. Il Cardinal d’Arinignac diceva che niente era da farsi senza il papa; che egli solo bastava per far ogni provvisione; che [si] scrivesse a Roma e aspettasse di lá resposta. Al qual parere alcuni pochi prelati