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libro sesto - capitolo ix 465


fosse stato ubidiente al Padre sino alla morte della croce, ma solo avesse fatto oblazione nella cena, noi fossimo redenti; onde non si può dire che una tal oblazione si possi chiamar sacrificio per esser principio di quello. Soggionse il vescovo che non voleva sostentar pertinacemente che quelle ragioni fossero insolubili; ma ben diceva non dover il concilio legar gl’intelletti di chi è persuaso d’una opinione con tanta ragione. Passò poi anco a dire che, sí come non gli faceva difficoltá il nominar la messa sacrificio propiziatorio, cosí non li sodisfaceva che in modo alcuno si nominasse che Cristo offerisse, poiché bastava dire che comandò l’oblazione: perché, diceva egli, se la sinodo asserisce che Cristo offerí, o fu il sacrificio propiziatorio, e cosí incorrerá nelle difficoltá suddette; o vero non propiziatorio, e cosí da quello non si potrá concludere che la messa sia propiziatorio; anzi in contrario si dirá che se l’oblazione di Cristo nella cena non fu propiziatoria, meno debba esser quella del sacerdote nella messa. Concluse che era il piú sicuro modo dire solamente che Cristo comandò agli apostoli che offerissero sacrificio propiziatorio nella messa. Poi obliquamente toccò il Salmerone, dicendo che se nelle cose della riforma si fa qualche pratiche, si può tollerare, versando circa cose umane; ma dove si tratta di fede, il voler camminar per fazione non è introduzione buona. Il parlar del vescovo mosse tanti, che fu opinione quasi comune che di sacrificio propiziatorio da Cristo offerto nella cena non si parlasse; nel resto l’opinione sua fu, come per inanzi, abbracciata da una sola parte.

Quell’istesso giorno l’arcivescovo di Praga, tornato dall’imperatore pochi giorni prima, presentò lettere di quella Maestá alli legati; e arrivarono anco lettere del noncio Delfino, residente appresso la Maestá istessa, ricercando Cesare, e per le lettere e piú esplicatamente per l’ufficio del noncio, che non si trattasse del sacrificio della messa, inanzi la dieta, e richiedendo che nella prima sessione s’ispedisse l’articolo della comunione del calice. Presentò anco l’arcivescovo per nome dell’imperatore una formula di riforma. Ma era troppo


Sarpi, Istoria del Concilio Tridentino - ii 30