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192 | l'istoria del concilio tridentino |
dato pace alli eretici; e che per questo non si doveva sperare che le cose di quel regno potessero prosperare, dove era
una manifesta disubidienza alla sede apostolica, sin tanto che
il re e il conseglio non si facessero assolvere dalle censure
e perseguitassero gli eretici con tutte le forze. E se ben da
alcuni delli francesi era difeso, con dire che le tribulazioni
continuamente sopportate da tutta la Francia e il pericolo
notorio della ruina del regno lo giustificavano assai contra
l’opposizione di quelli che non risguardano se non alli loro
interessi e non considerano la necessitá nella quale il re si
trovava redutto, la qual supera tutte le leggi (allegando quella
di Romulo, che la salute del popolo è la principale e suprema
tra tutte), queste ragioni erano poco stimate, e l’editto del re
biasmato, sopra tutto perché nel proemio diceva esservi speranza che il tempo e il frutto di un libero, santo, general o
nazional concilio porterebbero lo stabilimento della tranquillitá. La qual cosa reputavano un’ingiuria al concilio generale,
per esser posto in alternativa con un nazionale; e che fossero
nominati il cardinale di Borbon e il Cardinal di Ghisa tra gli
autori del conseglio di far la pace, dicendo che questo era
con grand’ingiuria della sede apostolica.
Ebbe anco principio un moto intrinseco nel concilio, se ben per causa leggiera, che diede assai che parlare. Fra’ Pietro Soto, che morí in quei giorni, tre dí inanzi la morte dettò e sottoscrisse una lettera, a fine che si mandasse al pontefice, nella quale in forma di confessione dechiarava la mente sua sopra li capi controversi nel concilio; e particolarmente esortava il pontefice a consentire che la residenzia e l’instituzione de’ vescovi fossero dichiarate de iure divino. La lettera fu mandata al pontefice, ma ritenutone copia da un frate Lodovico Loto, che stava in compagnia del Soto, il quale, credendo d’onorar la memoria dell’amico, incominciò a disseminarla. Onde erano diversi li ragionamenti, movendosi alcuni per l’azione d’un dottor stimato di ottima vita, in tempo che era prossimo alla morte; dicevano altri che non era fatto per proprio moto del padre, ma ad instigazione dell’arcivescovo di