grave ingiustizia, nel sentenziare dell’onestà degli scrittori deve tener conto delle condizioni della società, in mezzo alla quale sono vissuti. Se ciò non fosse ognora presente alla nostra memoria, in qual concetto dovremmo noi avere i nostri letterati del Cinquecento; i quali, da pochissimi in fuori, lasciarono tutti qualche scrittura, dove il pudore non sta troppo a bell’agio? Ma chi si richiama al pensiero il rilassamento morale di quel secolo; chi sa che a preti e frati, a vescovi e cardinali fu allora permesso nei loro scritti di bruciare incensi alla Venere impudica, senza compromettere la loro dignità; chi considera che Cosimo dei Medici non si tenne offeso dalla dedica fattagli dal Panormita del libro forse più osceno che si conosca, L’Ermafrodito; e che papa Leone X insieme coi principi della Chiesa potè assistere alla rappresentazione della commedia del Bibbiena La Calandra, non vorrà certamente mostrarsi così severo verso quei letterati, da negar loro ogni senso di verecondia, se in qualche cosa seguirono il comune andazzo: non dirà, per esempio, che furono uomini senza pudore Leonardo Bruni, il Poggio e il Machiavelli, sebbene anch’essi pagassero coi loro inchiostri un piccolo tributo alla letteratura licenziosa di quel tempo. E perchè il paragone riesca più convincente, vuolsi notare un’altra circostanza, che torna tutta a vantaggio di Giovenale. Quei nostri cinquecentisti non ebbero altro in vista che di divertire, e avrebbero