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NOTE


Alla Satira VI.


Si burla della follìa di quegli avari, che risparmiano per arricchire l’erede.

Io era a questo termine della mia traduzione, quando venni a sapere, che il P. Solari Scolopio, culto scrittore, e buon matematico ha di fresco intrapresa, e mi si dice ancor terminata una nuova versione di Persio con un proposito singolarissimo. Niente egli atterrito dalla tenebrosa precisione di Persio, niente disanimato dalla riflessione che l’esametro latino è assai più lungo di sua natura che non l’endecasillabo italiano, a cui manca per una parte il soccorso delle brevi, e si aggiugne dall’altra il perpetuo inevitabile strascico degli articoli, e più altri ostacoli che ognuno ben sente, il P. Solari confidato nella sua somma perizia delle due lingue si è accinto (per quello mi si racconta) a traslatar Persio in tanti versi italiani quanti latini. So che tutto si può aspettare da quell’ingegno, e lo credo senza temere che non siagli intervenuta la disgrazia di Labeone (V. la nota al v. 4 della prima satira). Nulladimeno un tanto coraggio mi ha da prima fatto paura, parendo a me ardire anche troppo l’attentarsi di volgerlo in terza rima. Indi, come suole accadere, mi sono invogliato di seguirne l’esempio, e tanto ho eseguito nella satira unica che mi restava. Non ispero, nè pretendo veruna lode a questo genere di traduzione, prendendo a lottare con un testo più gravido d’idee, che di parole, e che fa giustamente la disperazione degli eruditi. Contuttociò è tanta la pieghevolezza del nostro idioma, tanti i suoi schermi, le sue parate, i suoi artificj, che io non solo non vo’ pentirmi di questo temerario capriccio, ma stimo anzi che la versione di questa satira la non sia di certo la peggiore tra le altre sorelle sue. Che più? A me sembra che l’indole e la fisonomia di Persio vi sia stata più conservata. Questo pregio di fedeltà, se discompagnasi dall’eleganza e dalla chiarezza non monta un frullo, lo so ancor io; e una bella