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Pagina:Satire (Persio).djvu/57

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     Quale estimi ben sommo? Il sempre vivere
     Con lauto piatto, e sotto sole assiduo
     Profumar la cotenna? Odi rispondere
     Quella vecchia altrettanto. Or vanne, e spampana:
     25Io son figlio a Dinomaca. Si? gonfiati.
     Son bello. — Il sii; a patto che non s’abbia
     Di te men senno la cenciosa Bauci,
     Quando al mozzo sbracato grida: impiccati.
Gran che! nullo si studia in sè discendere,
     30Nullo: e soltanto a riguardar soffermasi
     L’appesa al tergo anteríor bisaccia.
Dimanderai: conosci di Vettidio
     Le tenute? — Di chi? — Di quel ricchissimo
     Che semina in Sabina quanto un nibbio
     35Non girerebbe. — Di lui parli? — Intendesi.
     Maledetto da Giove, e dal suo Genio
     Sai che fa? Quando attacca nel crocicchio
     Il vomere, raschiando con cuor trepido
     Il vecchio limo al botticello, un gemito
     40Rompe, e in sè dice: i numi me la mandino
     Buona. Quindi col sal morde le tuniche
     D’una cipolla, e posta, con gran plauso
     De’ suoi famigli, una polenta in tavola,
     Sorbe di morto aceto le filaccia.
45Ma tu, che trinci altrui, se al sole in ozio
     L’unta cute sporrai, non visto e prossimo
     Tal v’avrà, che al compagno dia di gomito,
     Acre sputando contra il tuo mal vivere,
     Contra te, che il cotale e delle natiche
     50Ronchi i boschi segreti, e le già fracide