Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/156

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100 capitolo diciottesimo

Dura il nome d’amico in sin che giova.
    Questo mobile affetto
    È di calcolo effetto.
    Sin che dura fortuna, o amici, voi
    5Bella cera tenete,
    E con vil fuga poi
    Altrove il volto al suo cessar volgete.
    Tai sono i mimi su la scena: quale
    Genitore si chiama,
    10Qual si dice figliuolo,
    Qual di ricchezze ha fama.
    Ma al calar della tenda, in cui rinchiuse
    Stan le parti facete,
    Torna a ciascuno la sua vera faccia,
    15E la finta ne scaccia.


Non però troppo mi abbandonai alle lagrime, che sospettando di non esser fra tanti mali sorpreso solo nella locanda dal vice-maestro Menelao,86 raccolsi i miei cenci, e me ne andai malinconico in un luogo solitario, vicino al lido. Colà stetti chiuso tre giorni, e rivangando col pensiero la presente solitudine e il passato disprezzo, mi rovinai co’ singhiozzi lo stomaco infermo, e in mezzo a tanti profondi gemiti spesse volte eziandio sclamai: Non può dunque la terra ingoiarmi ne’ suoi abissi, nè il mare sì funesto anche agli innocenti? Ho io ucciso il mio ospite, schivato il castigo, fuggitomi dall’arena, per trovarmi oggi, malgrado questi nomi pomposi, mendico, esule e derelitto in un’osteria di città greca? E chi a questo abbandono mi astrinse? Un ragazzaccio sozzo d’ogni lascivia, e per propria sua confessione meritevol di forca; fatto libero pe’ suoi stupri, e pe’ suoi stupri ingenuo, che non anco fuor delle bucce fu come una fanciulla goduto da chi appena sapea che era maschio. Che dirò di quel-