Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/249

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fine della favola 198

stesso giudice tra le emule dive se costei vedeva al confronto con quegli occhi sì vivaci, le avrebbe sagrificato Elena, e quante si conoscano dive. Almanco mi concedesse un bacio, mi lasciasse almanco abbracciare quel seno celeste, divino! forse il mio corpo tornerebbe robusto, e le parti che io credo malefiziate, riviverebbero. Non mi sgomentano le ingiurie ricevute, non mi ricordo delle percosse, l’esserne cacciato via mi pare uno scherzo: basterebbemi tornare in sua grazia.

Queste e simili cose e l’idea della bellissima Circe mi riscaldaron la mente in maniera, che io guastai il letto pel mio continuo agitarmi, come s’egli contenesse la mia fiamma. Eppure ancora a nulla riuscirono i miei movimenti. Sì ostinata disgrazia ruppe finalmente la mia pazienza, e bestemmiai l’avverso mio genio di avermi aduggiato. Tuttavia rimessomi in calma mi diedi a cercare qualche sollievo trammezzo agli antichi eroi, che furono in cotal guisa perseguitati dagli Iddii, e proruppi in questi versi.


Non sono io solo, cui persegua un Dio.
E l’implacabil fato: Ercole afflitto
Dalla irata Giunon del ciel sostenne
Il peso un dì, Pelia tremolle innanzi
5Poi che la profanò: Laomedonte,
Nè sapea contra chi, vibrò lo strale:
Telefo l’odio dei gemelli dei
Fu astretto sostener: Nettunno il volto
Fe’ impallidir di Ulisse; e me la grave
10Sulla terra e nel mare ira persegue
Del nume Ellespontiaco Priapo.


Da tali inquietudini tormentato passai tutta la notte in agitazione; e al primo albeggiare entrò Gitone in mia camera, il quale avea inteso che io avea dormito in casa, e stizzosamente mi rinfacciò la vita mia licen-