Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/34

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gantissimo lavoro di Petronio, siccome avvertiremo fra poco, resta sempre nella letteraria repubblica desiderio ardentissimo di ricuperarlo interamente. Anzi l’autore della Biblioteca de’ Romanzi accenna a questo proposito una piacevol novella, che noi per interrompimento di queste controversie dei critici non crediamo inopportuno di esporre.

Fiorivano in Germania nel secolo decimosettimo tre insigni letterati della famiglia de’ Meibomii, i quali alla professione della medicina, in cui erano peritissimi, aggiugnevano estese cognizioni nelle altre scienze, come dalle opere loro può rilevarsi. Un di costoro, non so se Giovanni Enrico, o Errico suo figlio, leggendo per avventura non so qual descrizione d’Italia, pervenne ad un capitolo, ove parlavasi di Bologna, e vide tra le altre cose queste parole: Bononiae videtur Petronius integer. Amantissimo dell’aurea latinità del nostro Arbitro, e informatissimo delle tante lacune, che a’ suoi giorni massimamente, il deformavano, nè ad altro Petronio che a questo volgendo egli il pensiero, rimase da gran maraviglia sorpreso, come avesse a trovarsene in Bologna un codice intero, mentre gli altri sino allora noti agli eruditi apparivano tutti guasti e sciamati a pregiudizio delle buone lettere, e con indicibil dispetto degli studiosi. Lesse e rilesse più volte quel passo, e persuaso di rendere un servizio importantissimo alla repubblica de’ letterati, e trarne egli non picciola gloria, ove fosse riuscito ad aver copia dell’immaginatosi manoscritto Bolognese, fe’ chiamar tosto una sedia di posta, e preso frettolosamente commiato dalla famiglia, in quella adagiossi, e alla volta d’Italia i postiglioni con generose mance affrettò, sì che in pochi dì trovossi a Bologna. Egli vi conoscea per carteggio e per fama un insigne medico e letterato, e a lui dopo brevissimo riposo si diresse. Cessati i primi complimenti, e le urbanità consuete, accostòglisi all’orecchio, acciò per