Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/84

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28 capitolo settimo

Fa il disprezzo vergogna,
    E il poter comandar mette in orgoglio:
    3Io, quanto a me, sol voglio
    Andarmene e venir quando bisogna;
    Degli altrui scherni il vero saggio ride,
    6E vittoria ha colui, che non uccide.


Battendosi poi palma a palma scoppiò ad un tratto in tanto ridere, che noi ce ne spaventammo; così fece dal canto suo la cameriera, che era prima venuta, così la fanciulla che l’accompagnava; tutto rimbombava di un riso teatrale. Intanto che noi, ignari del motivo di così improvviso cangiamento, or ci guardavamo l’un l’altro, or quelle donne, Quartilla disse: insomma io ho proibito che oggi si accetti chicchessia in questa locanda, onde avermi da voi senza interrompimento il rimedio alla mia terzana.

A queste parole Ascilto restò alquanto stupito, ed io fatto più freddo dei ghiacci del settentrione, non seppi profferire motto: e se nessun male io temea, n’era cagione la compagnia; poichè, se qualche fatto volesser tentare, ell’erano tre deboli donnicciuole; noi all’incontro, quando anche ogni altro viril soccorso mancasse, eravamo pur maschi. Difatti stavamcene di già bene in armi; anzi io avea già disposte le coppie, in modo, che se a combatter si avesse, io mi affrontassi con Quartilla, Ascilto colla cameriera, Gitone colla fanciulla.

Mentre io volgea in mente queste cose, mi si accostò Quartilla, ond’essere medicata della terzana: ma non riescitomi il colpo, ella sortì furiosa, e tornatasi un momento dipoi ci fe’ prendere da gente sconosciuta, e in magnifico palazzo trasferire.