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218 rubra canicula


In tutti e tre questi passi si fa comparazione dello splendore di Sirio col luccicar delle armi di un guerriero, il quale nel primo caso è Diomede, nel secondo Ettore, nel terzo Achille; tutti e tre in atto di combattere o di prepararsi al combattimento. Or qual è la ragione, per cui qui s’introduce Sirio piuttosto che un’altra stella? Il dott. See crede di trovarla nel colore della stella, il quale sarebbe stato simile a quello delle armi luccicanti, simile cioè a quello del χαλκός, che il See traduce per rame. La ripetuta menzione del πῦρ nel primo dei tre passi accennati è per lui argomento incontrastabile che il colore della stella fosse rosso come fuoco, fiery red.

Questo ravvicinamento è certo assai ingegnoso; ma è permesso dubitare che il poeta l’avesse sott’occhio nello scrivere quei versi. Il chiaro nostro collega prof. Francesco Cipolla, il quale si è interessato vivamente a questi miei studi, mi scrive su tale proposito con competenza ben maggiore di quella che io potrei avere in simile materia: «Quello che spiccava nell’astro, era lo splendore, non altro. Diomede si distingueva fra tutti gli Argivi: ἔκδηλον μετὰ πᾶσιν Ἀργείοισι (Il. V, 2-3), appunto come Sirio si distingue per la sua luce tra l’altre stelle, come è detto in Il. XXII, 27: ἀρίζηλοι δέ οἱ αὐγαὶ φαίνονται πολλοῖσι μετ´ ἀστράσι. L’immagine del fuoco non credo che accenni punto a colore rosso: si parla di fuoco che arde, πῦρ δαῖεν; fuoco inestinguibile, ἀκάματον πῦρ. Insomma il poeta guarda allo splendore fiammeggiante e non al colore. E il tremolìo del Monti è felice interpretazione. Aggiungo: λαμπρός è aggettivo applicato da Omero anche al Sole (p. e. Il. I, 605), e spesso alle armature. Or bene questo ci mostra che il nucleo, a così dire, del paragone tra Sirio e l’armatura di Diomede era il λαμπρόν, che non accennava a colore, ma a splendore, e se mai, a splendore candido. Così dicasi del λαμπρότατος di Il. XXII, 30». Rispetto al colore delle armature il Cipolla scrive: «Io credo che il χαλκός delle armature non fosse il rame ma il bronzo. Gli studii linguistici, archeologici, filologici concorrono, per quanto a me pare, a provar questo assunto; di che io ho parlato nel mio scritto Dei prischi Latini e dei loro usi e costumi, inserito nella Rivista di filologia e d’istruzione classica di Torino1. Lo scritto è vecchio, ma non credo di dover cambiare quello che allora ho detto».

  1. Anno VII, fasc. I e II, luglio-agosto 1878, pp. 6 e segg.