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Come nasce in noi la nozione del continuo? Vi pongo dinanzi una successione di piccolissime macchie. I più lontani non distinguono le singole macchie; ma tuttavia nell’insieme vedono qualcosa: una linea. E tutti s’accorgono che la macchia estrema A è distinta dall’altra macchia estrema B.

Così in una successione di macchie, di cui ciascuna è indistinta dalla precedente e dalla seguente, la prima e l’ultima appariscono distinte. I successivi indistinti conducono insomma al distinto.

Per togliere — dice il Poincaré1 — il disaccordo intollerabile di questo fatto col principio logico di contraddizione, siamo stati costretti ad inventare il continuo matematico. È una specie di rivincita che le nostre facoltà induttive prendono sopra i nostri sensi, i quali si ostinano a non distinguere al disotto della soglia della percezione. La circostanza che, sotto condizioni più favorevoli, per es. coll’uso di opportuni istrumenti, sia possibile d’intercalare nuove sensazioni tra due altre, che prima ci apparivano indistinte, favorisce la tendenza ad imaginare quella possibilità proseguibile oltre ogni limite, e dà alla nozione del continuo un sentimento di necessità da cui non sappiamo spogliarci.

Secondo Enriques questo sentimento si riattacca alla possibilità di associare in un unico concetto le rappresentazioni di una linea forniteci dai varî sensi.2

Ma forse il sentimento medesimo ci è anche imposto dall’unità stessa della nostra coscienza, che si ricostruisce nella molteplicità infinita delle sensazioni e dei ricordi, che è una, nonostante risulti in ogni momento, come dice Ardigò,3 dal «brulichìo di uno sciame immenso di pensieri».

Comunque si tratta di una nozione puramente astratta, che la realtà ci suggerisce, ma di cui non esiste alcun modello fisico adeguato.

Il continuo, come sopra l’ho considerato, presuppone già acquisita la nozione logica di ordine, che interviene quando

  1. Poincaré, La science et l’hypothèse; E. Flammarion, Paris, 1904; p. 35.
  2. Cfr. Sulla spiegazione psicologica dei postulati della geometria («Rivista filosofica». Pavia, marzo-aprile, 1901) n. 6.
  3. Ardigò, Opere filosofiche, t. VII; Draghi, Padova, 1898; p. 343.